È dicembre e io sono fuggita dal Natale. Fuori fanno -8 gradi e io sono andata a cena con sei sconosciuti da Gemma, a Noho.
Sono stata invitata con la premessa che non avrei conosciuto nessuno e ho accettato di buon grado, soprattutto perché in questo mese sola a New York ho deciso di dire sì a tutto e di fare tutto. In realtà l’ho deciso molto tempo prima, quando ho realizzato che la vita è una e che mi fermerò solo quando sarò morta. E soprattutto ho realizzato che posso fare ogni cosa. Cosa mi perdo?
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Comunque, Gemma è davvero buono, cavolo. Non la sento proprio la mancanza della Madrepatria, questi piatti non me la fanno rimpiangere. Uno immagina di trovarsi davanti ai maccheroni scotti fantasticando su chissà quale inarrivabile e semplice ricetta. Invece. Certo, non sono sicura che qui possa esserci la Fortunata di Campo de’ Fiori di turno, anyway.
Dopo questa cena sono in una casa a Brooklyn, parlo di arte e domande esistenziali con persone mai viste, che arrivano nel cuore della notte in questo salotto open space. La musica, le opere immortali, la definizione di immortalità e quella di arte. Un trip in un’altra lingua, un’intesa lampante. Il vino?
Poi arriva senza preavviso la domanda. Qual è la tua definizione di bellezza? Ti piaci?
Ecco, in quel preciso momento, a 5 ore di fuso, è dilagata questa consapevolezza in forma liquida, pronta ad insinuarsi in ogni crepa di me.
Faccio per guardarmi la maglia piegando il collo, e capisco meglio. Oggi ho girato tutto il giorno con la mia divisa: jeans nero, dolcevita nero , stivaletti di pelle e i miei anelli. Cappotto e marsupio, che devo stare comoda. Sono andata direttamente così alla cena, perché ero a mio agio ed è bastato aggiungere due orecchini per essere quasi elegante.
“Sono vestita così da questa mattina e pure se non lo fossi stata, mi sarei presentata alla cena vestita in questo modo. È la mia divisa, il mio modo di essere e penso sia anche fico come mi vesto. Mi piaccio, non voglio indossare qualcosa che non mi appartiene. Quindi se me lo chiedi, la bellezza per me è la confidenza. Propria e degli altri, chi sta bene con sé stesso, chi si ama. Io mi amo, mi amo proprio un sacco!”.
“Quanti anni hai?”
“26”
“Cavolo. Ne ho 32 e quello che hai detto l’ho capito poco tempo fa, non è scontato. È giusto quello che dici, ma di solito arriva dopo, è un percorso travagliato accettarsi, amarsi, piacersi. Non avere paranoie su come vestirsi. Non è banale a 26 anni”
A 26 anni ho capito che non mi serve seguire le mode. Devo seguire me, il mio istinto. Devo parlare con gli sconosciuti a notte fonda, accettare di andare a cene fuori programma, indossare quello che mi va a questa cena.
E poi andarci a ballare vestita così, e ballare tutta la notte, anche da sola, senza aver bisogno di un complice o di un appiglio. So ballare da sola in pista, a occhi chiusi, ballo per me. Il mio esercizio preferito.
A 26 anni prendo l’aereo quando mi va, mi incontro in un altro Paese con un’amica nuova. Se una sera voglio stare a casa a farmi una maschera rigenerante e a vedere Netflix, lo faccio mentre fuori il mondo scorre e vive eventi che, in fondo, non mi interessano. Perché devo andare alle serate di cui non mi piace la musica? Per essere parte di qualcosa che non riesce a non farmi pensare ad altro quando sono poi nel posto sbagliato?
Qualche settimana fa mi è stata rivelata una parola che non conoscevo. FOMO: Fear Of Missing Out. Una forma di ansia sociale caratterizzata dal desiderio di rimanere continuamente in contatto con le attività che fanno le altre persone. La paura di essere esclusi da qualsiasi evento o contesto sociale, paura di perdersi qualcosa se non si esce, se non si partecipa ai rituali imposti dalla collettività. Paura di non essere integrati, moda compresa. Ma, effettivamente, paura di perdersi che cosa?
La FOMO è una malattia della nostra generazione che ha l’ansia di perdersi la vita e che non comprende di poter scegliere. Vuoi andare a quella festa? Vuoi fare altro? Hai paura davvero di rimanere solo? Esci senza sapere il perché e non ti godi né l’uscita né lo stare a casa per conto tuo. Ti cambia il valore che attribuisci a tante azioni, anche semplici, che in realtà non devi aver timore di preferire.
Vi siete mai chiesti se partecipare a tutti questi eventi, se stare sempre in giro o sempre circondati da persone, non sia un modo per non ascoltare qualcosa che avete da dire voi? Allora, la paura diventa per qualcos’altro. Cerco posti nuovi, mangio fuori da sola (avete idea di quanto ci metto a scegliere il posto perfetto e raggiungerlo di proposito?), leggo un libro in un café pieno gente, vado per conto mio alle presentazioni di ogni sorta e conosco persone interessanti. E, indovinate, vado via quando mia va, e resto quanto voglio.
Arrivo a casa e accendo la musica, dipingo o cucino piatti esotici se mi gira, sto sul letto o nella vasca a scrivere o a dettare i miei pensieri a Google. Accendo le candele e ceno quando mi va. Pranzo sempre, ceno di meno. Il vero lusso è farlo sul letto in desabille, con una tazza di cereali, yogurt greco e banana a pezzetti. Avete del cacao amaro da metterci sopra? Santo cielo. In tutto questo mia madre ci prova sempre, a video-chiamarmi per assicurarsi che la sua figlia matta non sia stata rapita per strada durante le sue giornate un po’ così. Ogni tanto rispondo.
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Non ho la FOMO insomma, non le seguo le mode, mi piacciono molto, scelgo quello che mi piace. Lo mischio con il vestito di mamma, gli anelli di mia nonna, un capo che ho da 5 anni e l’ultimo acquisto. Le impreziosisco con i miei capelli che non taglio mai, con la riga in mezzo. Con i denti con lo spazietto tra gli incisivi, le orecchie a sventola che tengono la mia coda e qualche cicatrice, ché non mi sto mai ferma.
L’accessorio migliore credo siano le mie gambe che mi portano ad andare da sola nei posti. Non sono fantastiche e lunghe, anzi sono piene di segni, ma ogni tanto mi fermo e penso: Quanto cazzo sono fortunata ad avere le gambe? Mi portano dappertutto. Penso spesso a chi non le ha perché una delle persone che amo di più al mondo e che mi ha cresciuta non le può usare e io ci convivo con questa consapevolezza. Sono fortunata, le voglio usare fino a svenire.
Ogni tanto mi spunta un tatuaggio. Li faccio quando non li programmo e poi restano lì, permanenti. Per ricordarmi di non avere paura di non poter cambiare le cose fuori programma o semplicemente sbagliate. È così che affronto le cose, passandoci attraverso. Da piccola avevo paura delle iniezioni e dei prelievi, a 14 anni sono andata a studiare a Londra e ho pensato bene di farmi il piercing sulla lingua per dimostrare a me stessa di non avere paura degli aghi, scegliendo il punto che mi impressionasse di più. Posso dire di non averlo fatto per moda, ma come manifesto del mio pensiero.
A 26 anni credo nel karma, credo che un problema o si risolve, o non si risolve.
Credo di non sopportare chi si lamenta e chi mi mette ansia quando non serve. Non voglio fare le cose che non mi va di fare. E non sto citando Jep Gambardella.
Prima non sopportavo le persone vuote, quelle con cui non ho nulla da dirmi. Ora sono in pace anche con loro, potrei non dirmici nulla per ore. Potrei dirmi tutto con chi conosco da un minuto.
A 26 anni dico sempre “mi accollo tutto”, che problema c’è? Prova tutto, vivi tutto, la differenza la fai tu. Non avere aspettative (l’esercizio più difficile in assoluto), goditi il momento e sii presente a te stesso. Non c’è nulla di veramente grave o veramente importante. Cosa è veramente importante? Me lo chiedo spesso. Cosa è veramente grave? Per cosa vale davvero la pena preoccuparsi? Un posto di lavoro, la popolarità, la morte dei propri genitori, una malattia. Ogni cosa che viviamo, a un certo punto dobbiamo viverla da soli. Prima o poi lo saremo e dovremo fare i conti con noi stessi, dimostrare qualcosa.
Non voglio essere impreparata, non voglio essere chiusa, non voglio precludere un grammo di positività nei confronti della vita. Mi prendo cura degli altri perché mi fa bene al cuore, mi prendo cura di me perché, che te lo dico a fare. Preferisco la gentilezza e la disponibilità a caso alla chiusura. Faccio quello che mi va, non per incoscienza ma per consapevolezza e per scelta.
A 26 anni ho capito che non mi serve seguire le mode, intese in ogni senso possibile, poi il mio interlocutore interrompe il mio flusso di coscienza: “ti posso truccare?”.
Il giorno dopo ero in fila fuori da Glossier a comprare l’illuminante (di gran tendenza) che mi era stato consigliato. Perché mi andava così.