Due città distrutte, residuo della corsa agli armamenti risalenti alla guerra fredda, al confine tra Russia e Kazakistan, sono i luoghi della ricerca visiva di Nadav Kander in Dust.
Durante la ricerca di grandi città in Russia, per un progetto fotografico, il fotografo israeliano Nadav Kander si imbatte in due città più piccole, per la maggior parte distrutte, Kurchatov e Priozersk, che saranno oggetto del suo progetto: Dust.
Affascinato dalla dialettica della distruzione, che scatena in lui emozioni antitetiche, Kander porta avanti la sua ricerca evidenziando queste caratteristiche opposte, combinazioni di bellezza e rovina.
Guardando le fotografie che compongono Dust ci si chiede quando la rovina inizi a diventare estetica e ci si rende conto che sono proprio questi dualismi, che Kander approfondisce, che ci permettono di muovere lo sguardo tra la fascinazione e la paura della rovina e della distruzione.
In questo processo Kander viene influenzato dal concetto del valore della rovina espresso dall’architetto tedesco Albert Speer, che affermava l’idea che gli edifici potessero essere progettati appositamente per cadere in rovine esteticamente gradevoli, dimostrando ai futuri spettatori l’estetica delle generazioni precedenti, anche se il fotografo israeliano non si concentra tanto sugli estremi di questo processo quanto sul processo stesso, cercando di rintracciare il momento in cui il nuovo distrutto diventa una rovina del passato.
l titolo di questo lavoro viene da un verso di The Waste Land (“I will show you the fear in a handful of dust”) in cui T.S. Eliot si rivolge agli uomini che non vogliono risvegliarsi all’Aprile crudele, ovvero quegli uomini vuoti che di fronte al rifiorire della primavera avvertono ancora più dolorosa la loro vuotezza.
Alla luce di questo riferimento, quindi, il valore di Dust non è quello di proporci delle belle fotografie, piuttosto è quello di chiederci di accettare gli eventuali cambiamenti nell’ordine tra il bello e il brutto.