A cosa serve la moda quando non dobbiamo vestirci? La moda nel suo senso più radicale e profondo, quella capace di creare immagini, serve a farci realizzare cose che da soli non potremmo vedere. Immaginare ci serve a generare nuove idee. E sono le idee a cambiare i tempi, a cambiare le persone, a creare le rivoluzioni. Abbiamo bisogno della moda ora come non mai.
La pandemia ha reso ancora più evidente un problema già diagnosticato alla moda contemporanea: riesce raramente a capire in maniera puntuale chi siamo e come stiamo vivendo, e di quali immagini abbiamo bisogno. C’è chi è troppo distaccato dal reale, chi lo è troppo poco, chi è troppo referenziale o auto referenziale; la maggior parte è semplicemente derivativa. A cosa serve allora la moda?
Da un anno a questa parte, pochissimi designer sono riusciti a raccontare davvero cosa la pandemia abbia significato per noi, come abbia cambiato gli spazi esterni ed interni della nostra geografia reale e sentimentale.
Persino il negozio di casalinghi sotto casa mia ha colto più intimamente il sentimento pandemico, quando ha messo in vetrina le coperte con le maniche, rispetto a tanti designer come Alberta Ferretti che hanno pensato che la moda dovesse semplicemente dire “torneremo ad abbracciarci presto”, sulla stessa scia comunicativa di una pubblicità di sughi pronti.
Prada e Valentino sono gli unici ad essere stati capaci di usare la moda come linguaggio in questo frangente.
La primissima collezione del duo non aveva davvero nulla di speciale; è stata un’elementare addizione tra le estetiche dei due designer, l’ugly chic minimalista della Signora, e il decostruzionismo belga di Simons. Fortunatamente nel menswear appena presentato la sintesi creativa è stata radicale nonché un ottimo lavoro di squadra.
I modelli andavano e venivano con sguardi vuoti e disumanizzati in una spazialità alienante, in queste stanze vuote e coloratissime tutte diverse e tutte uguali, dai connotati surreali. Miuccia ha definito lo spazio “né un interno, né un esterno, uno spazio astratto fatto di intimità”.
Vagamente inquietante, riusciva contemporaneamente a infliggere e risolvere un senso di disagio. C’era nell’aria quella sensazione straniante ma curiosa di alcune scene di Twin Peaks, mentre i caschetti che aveva più di metà del casting ricordavano quello del protagonista di “questo non è un paese per vecchi”; a tratti c’era anche qualche traccia estetica di Suspiria di Guadagnino.
Miuccia e Raf trovano nella rinuncia al sentimento e nell’alienazione totale la definizione di ciò che stiamo passando. Questo sconforto, figlio del conflitto tra sé e la realtà circostante, ha qualcosa di familiare con le sottoculture giovanili di raver, pregne di nichilismo proprio come questa collezione. Tuttavia, nel nichilismo non c’è solo passiva rinuncia, ma consapevole e sublime distruzione.
Ed è simile la sensazione lasciata da Valentino a luglio. In un territorio completamente diverso da quello del prêt-à-porter di Miuccia, la couture di Pierpaolo è stata la prima vera e valida collezione capace di mettere in scena i nostri sentimenti e pensieri difronte alla pandemia e al lockdown; eventualmente, anche dandoci qualche risposta.
Nella sua “of grace and light”, collezione di couture dialogata con Nick Knight, PPP ci ha mostrato corpi senza le loro normali fisicità e scalarità. Corpi in abiti lunghi diversi metri, 6 in alcuni casi, che fluttuavano, danzavano o rimanevano fermi al suolo, su cui venivano proiettate immagini, luci, colori, devastati da continui glitch nel video; sono corpi riscritti, ri-significati, restituiti all’elementarità della loro condizione; tuttavia mantenendo la capacità di verticalizzarsi ed elevarsi.
Senza un alto né un basso, né uno spazio orientato, c’è sì la confusione ma anche l’opportunità di pensare senza limiti. Per PP è il sogno a restituirci un significato.
Come le tragedie greche generavano catarsi, mostrando alle persone cosa avevano dentro, vedere le nostre sensazioni sfilare ci riconcilia con noi stessi, rendendoci consapevoli.
Viviamo il trauma di essere punti nello spazio non più su una retta orientata. Viviamo il trauma di quando la normalità si distrugge: siamo sott’acqua senza ricordarci da che parte è la superficie. Non ricordiamo più molto bene cosa facessimo prima, e soprattutto perché: spesso ci siamo accorti che forse neanche ci piaceva tanto. Non sappiamo più a questo punto dove stiamo andando, né quando ci andremo.
Ci rimangono stretti il diritto e il dovere di creare senso; magari aggiustando il tiro su quello che non siamo più in grado di accettare come prima. Resta a voi scegliere se ripartire dal nichilismo o dal sogno.