Bifido, poster artist e ideatore di un’arte urbana che coniuga la sua poetica all’impellente bisogno di comunicare.
Le opere di Bifido danno nuova vita ai luoghi. Fanno riflettere la mente e il cuore.
Quando e come nasce l’arte urbana di Bifido? Raccontaci gli inizi.
Ho sempre avuto un debole per tutto ciò che avviene fuori dalle logiche del lavoro. Non sono mai stato coinvolto dall’idea di una vita fatta di produzione, consumo e morte, da una dialettica in grado di assorbire ogni cosa. L’arte è un modo per sfuggirvi. Non c’erano molte alternative. Vivere una vita di prigionia e noia (lavoro e hobby) o fare l’artista, che tra le cose noiose di questo mondo è comunque quella che preferisco. Da bambino mangiavo pochissimo e spesso rifiutavo il cibo, gettavo anche i piatti dalla finestra. Questo credo sia stato il mio primo approccio alla street art. Ho scelto la strada perché avevo delle cose da dire, da fare e quando hai un’impellenza non aspetti che qualcuno ti dia il permesso per farlo. (Inoltre le conversazioni da vernissage dovrebbero rendere misantropo qualsiasi animo sensibile). Quello che faccio ha qualcosa di infantile. È animato da un istinto di gioco che sta nel mondo come un costruttore di castelli di sabbia in riva al mare. Lui crea, il mare distrugge, lui di nuovo crea. Insomma, una cosa inutile e necessaria.
La tua tecnica segue la PosterArt. Quali sono le fasi del processo creativo?
Non sono un tipo materico. Sfrutto carta, colla, macchina fotografica, vernici o muri ma non mi ci affeziono. Il mio lavoro richiede una grossa dose di ricerca rispetto ai luoghi dove opero, ai soggetti e allo studio della messa in scena. Un immenso lavoro di braccia e di testa che, mentre lo fai, sai già che avrà vita breve e va bene così. La street art dovrebbe essere sempre effimera o almeno non permanente. Dovrebbe cambiare con i luoghi che abita. In questo senso, la mia tecnica viene incontro a questa esigenza. Lavorando con la carta i miei lavori cambiano negli anni, mutando insieme alla città. La parte del lavoro che preferisco è quando, per illuminazione divina(!), concepisco una nuova opera e quando, subito dopo averla realizzata, penso alla successiva. Come una defecazione ben riuscita che ti lascia il desiderio di farne comunque dell’altra! In futuro spero di risolvere tutti i problemi pratici delegando la parte faticosa del mio lavoro ad altri. Sono un pigro impenitente, un virtuoso della deboscia. Pensare al futuro è faticoso. Punto tutto su “adesso” e “mai”. “Domani” lo lascio alle persone serie.
I bambini sono i protagonisti della tua poetica: cosa vogliono esprimere?
Le immagini che compongo riguardano cose che accadono nel mondo o atteggiamenti socialmente significativi non direttamente legati all’infanzia. Questa scelta non è casuale. Il bambino, come l’animale, rappresenta l’altro, ciò che non può mai essere totalmente assorbito perché sfugge alle codificazioni. Un bambino, per quanto ubbidiente, mantiene in sé qualcosa di inafferrabile, di non ancora deciso, che si attarda sulla soglia del possibile. L’umanità dei miei lavori è triste, è problematica ma conserva la possibilità che le cose siano differenti. In fondo il mio è un messaggio semplice ma difficile da accettare: ciò che accade non è scontato e ognuno ha in sé il potere creativo di un bambino che gioca.
Qual è la tua esigenza creativa e il punto di riferimento del tuo stile?
Non ho nessuna esigenza creativa. Se l’avessi farei il decoratore o i designer o qualche altra cosa utile. Non ho punti di riferimento stilistici, ho solo compagni di gioco, ma sono tutti morti.
Perché hai scelto l’arte in strada? Come scegli i luoghi a cui dare nuova vita?
Vivo nell’arido grigiore della provincia italiana. La strada è una delle poche cose che offre. La maggior parte delle volte il posto mi viene proposto da terzi incomodi, spesso in luoghi periferici e disagiati o in piccoli paesini. In questi casi la relazione è molto più stratificata. Questo implica una relazione non passiva, un mix di comprensione e creazione. È necessario capire dove ci si trova ma non limitarsi a fotografare la realtà, cercando piuttosto di piegarla fino a farne intravedere limiti e possibilità altre. Quando invece quello che faccio nasce dalla mia voglia di modificare un posto, è lo spazio stesso che si lascia guardare. Io mi limito ad intervenire.
The WalkMan ha come obiettivo quello di scovare e mettere in luce giovani talenti ed artisti che credono nelle proprie idee. Cosa consigli a chi, come te, ha deciso di investire la propria vita nella creatività?
Investite nell’arte non nella creatività.