Da un anno a questa parte tiriamo le somme su tutto ciò che si è trasformato a causa della pandemia: le abitudini del quotidiano, le modalità di lavoro, la fruizione di mostre ed eventi, la realtà digitale in cui ci muoviamo.
In questa frenesia di bilanci e rivoluzioni, abbiamo sentito la mancanza delle nostre città, impossibilitati come siamo stati (e come in parte siamo tutt’ora) nel viverle davvero. Rispetto allo sviluppo urbano sono state formulate teorie per rendere i quartieri più accessibili, come quella della Città dei 15 minuti, o realizzate infrastrutture di mobilità sostenibile, vedi il piano di ciclabili transitorie attuato da Roma Capitale.
Ciò di cui si è parlato meno in questo anno di Covid è l’Architettura.
L’Urbanistica ha preso il sopravvento nelle riflessioni di professionisti e amministratori; soluzioni di Interior Design si sono rese necessarie per adattarsi alle esigenze di distanziamento e smart-working; l’Architettura in senso stretto, legata alla progettazione di edifici e spazi, invece, si è un po’ persa.
Come ha risposto l’Architettura alla pandemia? Quali spunti e soluzioni ha offerto?
A queste domande non risultano numerose risposte. Un vuoto che non sorprende, vista la confusione che caratterizza la disciplina da ormai diverso tempo, dovuta alla crisi del settore edilizio ed alla difficoltà di rendersi co-protagonista in una visione interdisciplinare.
Si vuole provare a mettere in fila tre considerazioni scaturite dalla pandemia che toccano l’Architettura per inserirsi in modo efficace nel dibattito contemporaneo.
Abbiamo riscoperto la casa
La grande novità di quest’anno è stata l’aver passato tanto tempo nelle nostre case. Per la maggior parte di noi, nella vita pre-covid, la casa era diventata il luogo dove la giornata iniziava e finiva. Il lockdown ci ha forzato ad invertire tutto, costringendo nella nostra stessa abitazione tutte le funzioni che prima ce ne facevano allontanare.
Siamo stati obbligati a rileggere il nostro spazio domestico come luogo all-inclusive, in grado di ospitare tutte le attività della nostra vita.
In modo autonomo abbiamo riscoperto la casa come meccanismo architettonico capace di adattarsi alle nostre esigenze: luogo di lavoro e di studio, palestra e discoteca, spazio affollato durante le infinite call. Il terrazzo condominiale si è rivelato una pregevole piazza sopraelevata mentre finestre e balconi hanno funzionato come punto di congiunzione verso la città.
Tutte dinamiche che hanno lasciato un segno nelle nostre abitudini e nella nostra idea di casa. Come emerso durante il 28° Forum di Scenari Immobiliari, dopo il lockdown c’è stato un cambio della domanda relativa alle metrature, con la ricerca di abitazioni più grandi. Questo ha influenzato anche gli edifici in costruzione, che sono stati ripensati rispetto a grandezza, spazi esterni e implementati con ambienti attrezzati per il coworking.
Se nel dopoguerra i più importanti nomi dell’Architettura moderna si erano interrogati sul tema della ricostruzione, oggi si pone la necessità di ripensare le abitazioni, in particolar modo per chi non ne ha una o faticherà a permettersela per le conseguenze economiche della pandemia. In questi anni tanti studi si sono dedicati a infrastrutture mastodontiche per grandi eventi o per aziende. Ma nel momento in cui lo smart-working ha dilagato, città come Milano si chiedono cosa fare con decine di uffici scintillanti se poi si lavora a casa, con il pc sulla tavola da stiro.
Abbiamo l’opportunità di ripensare gli spazi del vivere, disegnando luoghi domestici capaci di assorbire funzioni prima suddivise in più luoghi: non perchè saremo per sempre in quarantena, ma per costruire spazi malleabili sulle esigenze delle persone. Un ripensamento ampio delle politiche abitative, delle soluzioni formali e delle sperimentazioni come il co-living, che partendo dall’ambiente domestico arriva a toccare gli spazi urbani.
L’Architettura è un’arma a doppio taglio
Un’opportunità per fronteggiare il contemporaneo si è presentata con la campagna di vaccinazioni. Il bisogno di spazi dove inoculare il vaccino ha portato, in Italia, al tentativo di Stefano Boeri: un progetto che ha mostrato tutti i limiti che l’Architettura sta vivendo in questo periodo storico.
Se inizialmente l’annuncio di una risposta architettonica poteva indurre ad un ritrovato ottimismo rispetto alla centralità della materia, si è risolto tutto in un nulla di fatto arricchito da polemiche che hanno relegato l’Architettura a forma superflua, soluzione poco incisiva per i problemi quotidiani.
Dopo bandi contestati e il cambio di governo, per i vaccini si ricorrerà a spazi emergenziali che non prevedono nuove costruzioni. In sintesi, il fallimento dell’Architettura. Oppure la resilienza di mega-strutture trasformate in centri vaccinali, come la Nuvola di Fuksas.
La proposta ex-novo di Boeri voleva raccontare una storia, rassicurante e positiva. Un edificio circolare incentrato sull’immagine coordinata di campagna vaccinale e struttura. Un’architettura semplice, quasi elementare per il logo, il font e la forma. Un concetto di semplicità, necessario ai no-vax, forse eccessivo.
Ciò che ha scatenato polemiche, oltre ai tempi e costi di realizzazione, sono state anche questioni di ordine logistico e urbanistico, di sorveglianza e smaltimento.
Mentre si parla di transizione ecologica, ha senso produrre nuovi rifiuti per centinaia di edifici temporanei?
Perchè non unire, come giustamente si chiede Antonio Ottomanelli su Artribune, la necessità di spazi per i vaccini con il bisogno di rigenerazione urbana delle nostre città? Immaginare fin da subito, e con anticipo, un piano per riattivare edifici dismessi ospitando la filiera e la somministrazione dei vaccini. Non spazi usa e getta ma luoghi da far rimanere attivi per funzioni sanitarie e magari essere riconvertiti più avanti, tramite attività sociali.
Ecco, l’Architettura è un’arma a doppio taglio, perchè possiede intrinsecamente la capacità di immaginare la città del domani e imprimere un reale cambiamento nel territorio ma anche il pericolo di essere strumento di propaganda.
Le Primule sono sembrate un’operazione di marketing, dove l’Architettura non è stata in grado di risolvere i problemi, materia effimera che non riesce a rendersi concreta.
Le soluzioni arrivano dall’ironia
In mancanza di concretezza dell’Architettura “vera”, quella che più di tutte sembra proporre soluzioni è l’Architettura “finta”. O meglio, quella che parte da visioni e proposte utopiche, ma che pone temi attuali tramite risposte di rottura.
Un esempio viene dal progetto di Architettura social Alvar Altissimo. Una pagina su Instagram, repostata molte volte dallo stesso Boeri, che riesce a diffondere progetti arguti e ironici, rimanendo sempre sul pezzo.
L’autore, l’architetto Fabrizio Esposito, ha pubblicato diversi progetti inerenti la pandemia: la Città di Vaccinia, le torrette per concerti distanziati, la Casa Lockdown e la proposta di un’Estate Italiana con spiagge e muri divisori.
Utilizzando l’ironia Altissimo riesce a tirare fuori provocazioni che sembrano mancare negli studi e nelle Università. Grazie all’immediatezza delle sue proposte surreali, risulta capace di soluzioni che stimolano la fantasia di esperti e curiosi su come potrebbe essere il mondo durante e dopo la pandemia. Lavoro che svolge egregiamente un’altra pagina come City Maybe che propone visioni distopiche sul domani.
Idee e progetti dirompenti possono garantire all’Architettura una nuova centralità nel dibattito contemporaneo?
Proporre visioni esplosive non significa spararla grossa, quanto pensare fuori dagli schemi per un periodo totalmente insolito. Solo immaginando soluzioni inedite e soffermandosi sull’ambiente domestico e sulla rigenerazione urbana l’Architettura attraverserà il Covid, rilanciandosi come materia necessaria per il futuro.
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