Epoca della nostalgia. È forse l’epoca in cui viviamo? È azzardato definire così il tempo che vive la nostra generazione?
Epoca della nostalgia: questa definizione, quasi una sfida, è stata come un sussulto. Ero in macchina con Nicola, parlavamo di eventi, locali, canzoni, format di ogni genere e ogni sorta di attualità, come al nostro solito, fino ad arrivare alla moda. Alle mode.
La strada scorreva e nel frattempo passavano alla radio una, due, tre canzoni degli anni ‘90, ora proposte in una nuova veste moderna, rifacimenti vintage. Così come vintage mi sembrano le recenti fotografie dei nuovi professionisti emergenti, ma anche quelle degli influencer su Instagram. I nuovi scatti dei più giovani artisti, le istantanee dei personaggi pubblici sui social. Penso ai pantaloni a zampa, al minimal semplice, alle nuance ton-sur-ton, ai tagli puliti sospesi nel tempo e ai toni ecrù.
La macchina va, la radio pure.
<<Viviamo nell’epoca della nostalgia. Possibile?>>.
<< Gin, stavamo meglio prima?>> (non) mi risponde Nicola.
Se si volesse intercettare una risposta nelle tendenze del momento, forse “prima non si viveva così male“. Quelli di oggi, sembrano dei trend onesti e leggeri, nonostante spaventino a pensarci, perché pur essendo rivisitati appaiono come qualcosa di già visto, una sorta di ricerca di sicurezza nel passato. Una ricerca morbosa, appassionata, rispettosa, o prudente?
Una prima riflessione, quasi istintiva, fa pensare a tutta questa dimensione patinata esposta da moda e musica, specchio di una società contemporanea, dei suoi desideri e delle sue paure. Società che sembra fortemente desiderosa di un ritorno al passato, di un’accoglienza calda, che solo questo mitico trascorso ha saputo darci.
<<Ma è davvero così insuperabile il passato?>>.
Una domanda difficile e incredibilmente vasta. Una questione che può rivolgersi non solo alle mode o ai pensieri che saltano alla mente solo quando ci si accorge di essere veramente diventati adulti. “Si stava meglio prima” viene da pensare quando abbiamo una consapevolezza diversa. Quando ormai siamo noi quelli che pagano il nostro affitto, le nostre bollette. Ora siamo noi quelli che cambiano il rotolo della carta igienica in bagno quando finisce e siamo sempre noi quelli che vanno alle Poste. Siamo le persone che soffrono questo tipo di nostalgia perché stiamo vivendo l’impatto con le responsabilità di un’età adulta.
Stiamo guardando al passato come qualcosa di confortevole? E ancora questa domanda basata su quanto sia facile andare avanti piuttosto che superarlo, questo passato, può essere rivolta a tutto. Alle delusioni, ai fallimenti, alla parola fine dopo che si è vissuto intensamente un periodo della propria vita. È una domanda che si può applicare all’amore, pensando a una realtà famigliare che non si vive più o all’idea che presto non si potranno più avere i propri genitori. La domanda che ci si pone pensando a quando il dentista te lo pagava mamma, a quando facevi sport il pomeriggio ed avevi quegli impegni genuinamente infantili e formativi.
Stiamo guardando al passato come qualcosa di confortevole? Si applica a tutto questa domanda.
Si applica a tutto?
Mentre i miei pensieri corrono sulla gomma delle ruote ed esplodono all’interno dell’abitacolo della macchina, parte un rifacimento di I Want It That Way dei Backstreet Boys e ogni turbinio mentale si blocca: all’improvviso c’è solo la danza euforica, una sensazione che solo qualcosa che conosci bene e che ti ha emozionato sa trasmetterti. E lo farà sempre, anche quando la incontri per caso, per strada, mentre vai da Leroy Merlin, ad esempio, a comprare delle mensole nuove. Allora sì, mi viene da dire che gli anni ’90, nel mio caso, fossero meglio.
In quest’ottica plausibilmente soggettiva e basata in minima percentuale sull’idolatrazione dei Backstreet Boys, verrebbe da pensare che il concetto di epoca della nostalgia sia qualcosa di assolutamente personale e associabile a un periodo di transizione della vita. Quella fase in cui hai bisogno di sicurezze e ti senti instabile perché più fai passi in avanti più ti senti dondolare.
Non hai più la certezza di poter vedere i Simpson dopo pranzo, né tantomeno di assistere nel pomeriggio al Bim Bum Bam di turno. Non esistono nuovi livelli di Saiyan. Non hai lezione di volley alle 17, né il minestrone di farro del giovedì sera e né tantomeno hai nessuno che ti aspetta al ritorno a casa da scuola con la pasta fumante, già pronta in tavola. Magari quella al pesto che ti piace tanto. Che ora non compri perché è un preparato, e sei convinto che il cibo lavorato sia il male e quindi non mangi pasta con il pesto da 5 anni. Non hai il tuo uovo di Pasqua, e qui mi fermerei.
Si stava davvero meglio prima? Cos’è esattamente quest’epoca della nostalgia?
Se dovessimo effettivamente svolgere un confronto su quanto si possa godere oggi di un elevato benessere rispetto a ieri, la differenza è abissale. Possiamo dire che siamo realmente proiettati nel futuro che immaginavamo da piccoli, forse non è esattamente così ma è sicuramente un futuro che ha con sé il progresso, la connessione su più livelli e una distanza umana incredibile su tanti altri.
Leggiamo in continuazione post di persone che forse conosciamo a malapena e che rimembrano i famosi tempi andati, di quando giocavano a pallone in cortile o quando si sbucciavano le ginocchia o si azzuffavano e “i genitori gliene davano il doppio “. Abbiamo bisogno sul serio di questo “doppio”?
Lo scorrere della vita e la sua irriproducibilità è un aspetto che ha in fondo il suo fascino lecito, e dovrebbe anche essere giusto così. Ognuno il suo percorso. A ognuno la sua epoca, a ognuno la sua cucchiarella, il suo telefono sequestrato.
La sensazione di vivere in un meccanismo chiuso, la schiavitù del tempo, le finte offerte del supermercato, la depressione come malattia di oggi. Dall’altra parte la libertà d’espressione, la libertà di pensiero e quella sessuale L’emancipazione, la possibilità di viaggiare, la possibilità di studiare ovunque, la possibilità di poter lavorare in qualsiasi posto del mondo. La possibilità di lavorare in qualsiasi posto del mondo e restare connesso con le tue radici.
Le radici, il concetto di radici. Forse un senso profondo reso nostro quanto mai prima d’ora, una consapevolezza nuova del nostro passato. E allora questo replicare, diventa un celebrare il passato? Questo stravolgimento dei trend e delle mode vuol dire la loro morte, la loro evoluzione e il loro non voler progredire? Eppure la nostra esperienza è imprescindibile da ciò che poi produciamo nel corso del tempo, sperimenteremo sempre. Ci sarà sempre una cifra futura in ogni cosa che faremo, pur guardando indietro, e questo aspetto rende meraviglioso tutto ciò che andiamo e andremo a realizzare in questa esatta epoca.
La risposta alla nostalgia sono le radici. La ricerca contemporanea non annulla il qui ed ora ma è invece ancora più consapevole di ieri. Questo è un carattere fondamentale della nostra identità. Identità come persone, identità come società, identità come cultura.
La nostalgia diventa così un sentimento, una caratteristica primaria, un codice genetico. L’identità culturale è quanto mai celebrata in questa epoca. Basta vedere quanto, in questo Back to the Past, ci sia quel folklore prezioso che ci caratterizza come esseri umani.
I nuovi video musicali, i contenuti affrontati, le ambientazioni delle passerelle, gli shooting. Gli arredi del passato alla ribalta, l’attenzione per il cibo genuino, per il ritorno alle ricette tradizionali, per l’idea di sano. Sano associato a tradizionale. I costumi da bagno interi, quelli a vita alta. La folle corsa al voler tornare a svolgere attività all’aria aperta, la ricerca del contatto umano. La celebrazione e la riscoperta della figura dell’artigiano. Le discoteche dove non si balla più, si canta. Ci si aggrega, si fanno otto festival a settimana per celebrare ogni cultura scibile. Guardiamo le serie ambientate negli spazi quotidiani, ci appassioniamo dei racconti reali. Impazziamo per Liberato. Perché forse, che sia un prodotto vero o confezionato, Liberato ha fatto centro nel nostro sentire questa epoca della nostalgia.
Liberato celebra le radici, parla la sua lingua, è fedele alla sua quotidianità e ce la racconta utilizzando quell’estetica sospesa nel tempo. Liberato sa comunicare questo nostro sentimento nell’epoca della nostalgia, rappresenta quasi un ritorno alle origini e mai come ora ne abbiamo sentito il bisogno. Per questo lo seguiamo con interesse, perché vediamo in lui una figura che non ha paura del dialetto, della realtà, del brutto genuino, della verità e del folklore. Non si si ripulisce, rappresenta la vita e lo realizza con intelligenza perché al dialetto, al rap, associa un’estetica, una musica futura e pur rappresentando a livello estetico e visivo questa sua realtà, lo fa con profonda modernità.
Liberato ci ha scattato un’istantanea. Funziona perché emotivamente ci fa sentire la storia della nostra cultura che si evolve.
Viviamo il Neoclassicismo del nuovo secolo. Il Neoclassicismo ha infatti celebrato l’epoca classica ma ha commesso l’errore della propria convinzione. Si immaginava una cultura antica patinata, eterea, monocroma, perfetta. In realtà l’età dei greci e dei romani viveva del proprio colore vivo, un pigmento acceso di cui siamo a conoscenza solo oggi. Proprio oggi, in questa epoca della nostalgia così consapevole.
Il Neoclassicismo che stiamo vivendo è questo nostro guardare all’epoca passata come un qualcosa di perfetto e irripetibile, senza considerarne i difetti, le bruttezze e gli errori. Vogliamo immaginare i templi candidi e ignorarne il colore. Guardiamo al Laocoonte senza considerare la vernacolarità. Eppure, il nostro ritorno al passato non è una brutta copia, ma una tiratura nuova. Il nostro occhio e i nostri sentimenti hanno saputo catturare ciò che di buono e di significativo, l’aspetto primordiale, l’imprinting del nostro passato, ha saputo lasciare come una visione impattante e lo ha reso suo caratterizzandolo proprio di questo tempo.
Sembra si tratti di un’arte nata dall’insoddisfazione, invece è un’arte più che mai nuova, che, perlomeno nel microcosmo italiano, ha saputo darci la fotografia di Francesco Lettieri nei video di quel già citato Liberato o la più recente ambientazione di Paracetamolo di un Calcutta di turno. Una volontà che ha sfilato con il patchwork delle collezioni passate offerto da Prada, con le campagne sospese nel tempo e la ricerca temporale brillante di Alessandro Michele per Gucci, con il restauro della Villa Casa Causarina di Gianni Versace a Miami. Un desiderio di genuino che ci fa celebrare i nostri giovani chef come Potì e Pellegrino su Forbes, forti di una loro visione rinnovata della tradizione culinaria, la stessa ma anche diversa visione che ha fatto vincere un sincero Simone Scipioni a Masterchef. Una ricerca, quasi un viaggio, nel riscoprire il piacere dell’arte visiva e artigiana, sartoriale. Un percorso fatto di design di urgenza, di narrazione e di senso, come quello di Sara Ricciardi, Matteo Di Ciommo, quello dei Gum e di Salmistraro. Un’arte che ci ha restituito in un’istantanea ciò che sappiamo della nostra storia, raccontandola come ha saputo fare Garrone in Dogman e mettendola in scena in un lunapark anni ’90 sulle note di Galeffi. La vediamo lì, è immaginifica, visiva, espressiva. Ci parla, ha molto da raccontare.