Essere Donna Fa Schifo – Rubrica al femminile.
No taboo/censure. Tratterò di tutto. Anche quello che non immaginate.
Non voglio assolutamente fare guerre di genere o robe simili. Voglio solo raccontare il mondo attraverso i miei occhi, condividere pensieri filosofici e riflessioni sull’esistenza. “Essere donna fa schifo!” è uno di questi. A chi non è mai capitato?
E non mi rivolgo solo alle donne ma a chi, per una volta, ha odiato “essere”, come a dire: perchè a me? Forse agli altri andrebbe meglio se non fossero me? Il cosiddetto “l’erba del vicino sembra sempre più verde”, che poi chi lo sa, magari il vicino ha l’erba OGM e non ce lo dice. Ma partiamo dall’inizio.
Per me tutto è iniziato con l’essere donna e dalla celeberrima fase genitale, che Freud fa iniziare con la pubertà, ma che io credo di aver avuto molto prima (spoiler).
Freud, nei suoi studi psicoanalitici, parla di questi sentimenti negativi che uomo e donna ricambiano l’uno verso il genitale dell’altro: l’invidia del pene per le fanciulle ed il complesso di castrazione da parte dei maschietti.
Quando ero bambina passavo molto tempo a casa di mia zia. Lì mia nonna controllava me e mio cugino Davide che non morissimo cadendo dal balcone, fulminati dalla corrente o avvelenati da agenti chimici.
Davide è più piccolo di me di 9 mesi, quindi una tempistica non sufficiente per far sì che uno avesse più coscienza dell’altro. Una volta, abbiamo mangiato le palline di gel di silice che si trovano nelle scatole di scarpe, pensando fossero caramelle lasciate apposta in dono agli acquirenti.
Quando le nostre mamme ci hanno beccato, hanno provato a farcele rigurgitare. Lui le risputò quasi tutte, io no. Questo, giusto per spiegare che forse è la silice ancora nel mio corpo a farmi ammettere ciò che scriverò tra poco (Scarico di responsabilità = ON).
Io e Davide eravamo i più piccoli di tutta la famiglia, ed è per questo che passavamo molto tempo insieme a giocare e fare amicizia con altri bambini. Abitavamo nello stesso quartiere ma in zone completamente diverse. Sotto casa sua c’erano molti parchi e di conseguenza tanti bambini con cui passare il tempo, mentre io, quando mi affacciavo, vedevo solo il mondo degli adulti fatto di negozi, bar e ristoranti.
Amavo passare così il tempo a casa di mia zia per poter vivere l’età giusta, ma soprattutto avere il giusto spazio per poterlo fare. Molte volte passavamo intere giornate sotto casa o al parco senza mai voler tornare, neanche per andare al bagno. Ed è proprio qui il primo punto di tutta una serie:
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#lapipì
Le mie pipì all’aperto fanno parte di un macrosistema evolutivo, strutturato in fasi catartiche che (a parer mio e lo dico anche con grande orgoglio) hanno reso la persona che sono io adesso.
Questa specifica fase, è rappresentata da una serie di disagi e scomodità, sulla quale si può apportare uno studio lunghissimo (ancora oggi non del tutto concluso) sui procedimenti sia fisici che psicologici per riuscire a trovare soluzioni pratiche al problema del mingere con facilità.
I primi problemi a cui andavo incontro quando, in posizione “accucciata” (termine tecnico), cercavo di eliminare i liquidi in eccesso, erano il vento e la velocità: non so perché, ma ricordo che il vento rendeva la mia vescica timida e così, non riuscendo a portare a termine la missione, rinunciavo creando in me “piccole frustrazioni di bisogni non soddisfatti” (termine tecnico).
Il secondo fattore è legato alle molte volte in cui capitava di “accucciarsi” in posti non del tutto nascosti e così la velocità di dover “agire e finire” prima di essere visti, mi procurava o blocchi improvvisi (vedi sopra) o getti confusi su cosce e scarpe.
Quindi, subendo tutto questo, le mie “piccole frustrazioni di bisogni non soddisfatti” si intensificavano quando assistevo spesso a scene di Davide che, con molta nonchalance (molte volte anche mentre camminavamo per strada) se lo tirava semplicemente fuori per urinare nel primo porto sicuro.