Non come il film. Chiamami proprio col tuo nome, quello che preferisci.
Mi piace molto essere Ginevra, avere questo nome ancora di più. Ma qui non riescono a pronunciarlo, il problema principale è la combinazione V-R, che diventa puntualmente R-V.
Così il mio primo giorno di lavoro il mio badge era sbagliato, ero Ginerva. Lo sono tuttora, il mio nome sulla postazione in ufficio è scritto erroneamente e i colleghi quando mi incrociano per i corridoi ripetono la scena: si fermano. Mi guardano, puntano l’indice e provano a pronunciare correttamente il mio nome. Una sfida. Ma lo sbagliano sempre. Ginerva. Lo trovo addirittura difficile io da scrivere.
Una cosa che apprezzo molto è comunque il tentativo. È una forma di rispetto provare a pronunciare bene il tuo nome, tutti qui vogliono dirlo bene e capisco lo sforzo.
Capisco se una persona vuole davvero rivolgermi attenzione o coinvolgermi in un discorso in base a quanto si sforzi di pronunciare bene Ginevra. È diventato il mio parametro di riferimento, ma anche un camapanello d’allarme.
In effetti mi chiamo Ginevra, non Ginerva, Giniva, Geneva, Genevra, Genivra, Jeanie, Jean. Solo ora inizio a voltarmi quando sento uno di questi nomi, anzi ora mi volto pure coi nomi degli altri con lo scrupolo che possano chiamare me.
Mi volto coi nomi degli altri.
Qualche italiano che conosco qui non ha più il suo nome, che come affermazione fa ridere. Ma il suono musicale tutto nostro, a volte prolungato e quasi avvolgente (sì, ci ho pensato un po’ a questa cosa, per delineare le differenze e le difficoltà di pronuncia. Che poi non oso immaginare dall’altra parte, la mia, di pronuncia) è complesso per gli anglosassoni.
Insomma, questi italiani tendono ad abbreviare il loro nome o addirittura a trasformarlo, a renderlo molto americano. Non mi sentivo pronta per essere Jean, non volevo dire: chiamami pure Jean. Poi, una mattina mentre ordinavo il mio cappuccino, quasi sovrappensiero, non ho detto Ginevra. Ho detto small Cappuccino with oat milk, Gin.
E va bene, tutti mi chiamano Gin, resto in una comfort zone. Ma prima era un nome quasi intimo, riservato a chi mi conosce, almeno alle persone con cui ho scambiato almeno due parole.
Ora stavo offrendo questo briciolo di intimità alla signorina alla cassa, in pasto alla città intera.
Da quel cappuccino mi sono lasciata chiamare con un altro nome, non importa se prima fosse il mio soprannome, ora ha preso il posto del nome. E tutti riescono a dirlo, e funziona.
Essere chiamati col soprannome è straniante, a tratti giocoso, quasi alleviante, soprattutto nei contesti più seri. Mi fa sorridere, mi fa sentire più Gin che Ginevra, meno distante dagli altri.
Cambiare nome è può sembrare una sciocchezza, ma non è qualcosa di leggero, è catartico.
Vi sfido a cambiare tutto, a trasformare tutto e a farlo con un altro nome. A regalare il vostro nome intimo ai passanti e a riservare quello dell’anagrafe solo a chi (forse) vi conosce un po’ più degli altri.
[divider]ENGLISH[/divider]
American Blog – Call me by your name
Not like the movie. Call me just with the name you prefer.
I really like being Ginevra, having this name even more. But they cannot pronounce it here, the main problem is the V-R combination, which becomes R-V as usual.
So my first day of work my badge was wrong, I was Ginerva. I still am, my name is wrongly written on the office station and when my colleagues cross me in the corridors, they repeat the scene: they stop and look at me, point their finger and try to pronounce my name correctly. A challenge. But they always get my name wrong. Ginerva. I even find it difficult to write.
One thing I really appreciate is their attempt. It is a form of respect to try to pronounce your name correctly, everyone wants to say it well and I understand the effort.
I understand if a person really wants to pay attention to me or to involve me in a speech based on how much he or she tries to pronounce Ginevra correctly. It has become my benchmark, but also an alarm bell.
Indeed, my name is Ginevra, not Ginerva, Giniva, Geneva, Genevra, Genivra, Jeanie, Jean. Only now I begin to turn around when I hear one of these names. Actually I also turn around with the names of others with the doubt that they can call me.
I turn with the names of the others.
READ THE SECOND CHAPTER – NEW HABITS IN A JAR
Here I know some Italians which they have no longer their name, that as an affirmation makes me laugh. But the musical sound of our own, sometimes prolonged and almost embracing (yes, I thought a little about this thing, to delineate the differences and the difficulties of pronunciation. Which I don’t dare to imagine on the other side my pronunciation) is complex for Anglo-Saxons.
In short, these Italians tend to shorten their name or even transform it, to make it very American. I didn’t feel ready to be Jean, I didn’t want to say: call me Jean. Then, one morning while I was ordering my cappuccino, almost distractedly, I didn’t say Ginevra. I said small Cappuccino with oat milk, Gin.
All right, everybody calls me Gin, I stay in a comfort zone. But previously it was almost an intimate name, reserved for those who know me, at least to the people with whom I exchanged two words.
Now I was offering this grain of intimacy to the young lady at the cash desk, being fed to the whole city.
I let myself be called by another name from that cappuccino, no matter if it was my nickname previously, now it has taken the place of the name. And everyone can say it, and it works.
Being called by the nickname is alienating, at times fun, almost relieving, especially in the most serious contexts. It makes me smile, it makes me feel more like Gin than Ginevra, less distant from the others.
Changing the name may seem silly, but it’s not something light, it’s cathartic.
I challenge you to change everything, to transform everything and to do it with another name. To give your intimate name to passers-by and to reserve that of the registry office only to those who (perhaps) know you a little more than the others.
Translation by Fiammetta Maceroni