Fake selfie – Buona parte dei gesti che compiamo è autoreferenziale. A chi stiamo rendendo conto quando postiamo un selfie, che sia un fake selfie o no, su Instagram? Forse a nessun altro che a noi stessi.
Fake selfie – Siamo probabilmente i nostri followers più accaniti, e scrolliamo più e più volte i nostri profili, forse più di quanto scrolliamo la home. Infatti, per quanto ci piaccia farci gli affari degli altri, ci piace molto di più organizzare la nostra vita in stories, boomerang e quant’altro secondo certi criteri, ovvero avendo cura di evidenziare che: a) facciamo tante cose; b) che tutte le cose che facciamo sono o interessanti o stravaganti o straordinarie; c) che le tante cose che facciamo ci rendono felici. Perché c’è questo concetto secondo cui fare tante cose significa aver vissuto davvero la giornata? Perché abbiamo paura di accettare che la vita è anche noia, elucubrazione, attesa, assenza? Ma soprattutto, perché abbiamo l’esigenza di postare foto e di edulcorarle?
Ne Le nuove teorie del mondo contemporaneo di Krishan Kumar (Piccola Biblioteca Einaudi, Treviso 2003) si affrontata il tema dei mass media come creatori della realtà, non più semplici informatori, comunicatori; credo che lo stesso si possa dire per i social network: postare una foto di noi o delle nostre vacanze significa dare a noi stessi la garanzia che quei momenti ci sono effettivamente stati, o, meno drasticamente, che sono stati effettivamente belli, degni di essere vissuti, e che la nostra vita è tutta così: un susseguirsi di ricordi splendidi. Per questo postare un fake selfie significa innanzitutto mentire a noi stessi (sul nostro status sociale, sul nostro aspetto, sulle nostre abitudini, magari registrandoci nel locale x di Portofino mentre siamo a Ostia Lido), ma lo è tanto quanto postare una foto filtrata di un momento davvero accaduto, come un caffè tra amiche, perché ciò che rende davvero uno scatto una finzione è l’appagamento innaturale che trasuda da esso.
Abbiamo perciò questa esigenza di convincerci della bellezza della nostra vita, e nel fare questo viviamo, appunto, di illusioni, ma lo facciamo perché non sappiamo privarci dell’aspettativa. Ogni giorno carichiamo di aspettative ogni nostro impegno o svago, vogliamo sempre il meglio (senza sforzo) da una cena, un’uscita, un pomeriggio a casa, una chiacchierata, e non sopportiamo che la realtà possa presentarsi opaca o mite o ripetitiva o deludente, dobbiamo sublimarla, immortalarla per renderla speciale, non immortalarla perché è speciale.
“Guardate che cosa divertente che sto facendo”,“Guardate come vivo la mia vita pienamente”,”Guardate come esisto bene”. E’ questo che diciamo quando intasiamo i social di noi stessi. Perché non riusciamo a vivere fuori da un tale strumento di garanzia? Dopotutto viviamo ancora in un mondo fatto di terra, aria e acqua, l’Iperrealtà non è ancora, fortunatamente, l’unica realtà esistente. Il problema è che, per uscire fuori dalla finzione, è necessario accettare lo stato delle cose, e quindi dismettere i nostri panni da rockstar per vestire quelli da persone comuni, da individui quali siamo, e riconoscere in noi a quel punto l’imperfezione, la tristezza, l’incompiutezza. Riconoscere che non tutte le giornate si riescono a vivere come fossero le ultime della nostra vita, che qualche volta il tempo si perde e non si guadagna, che ci sono giorni in cui non si ha effettivamente niente da fare se non annoiarsi alla grande. Ma cosa c’è di così inaccettabile nella sofferenza o nella noia? Si dice che i bambini sviluppino la fantasia annoiandosi, non facendo nulla se non vagare con la mente verso mete ignote, per abitare luoghi che hanno ogni tanto il sapore della felicità seppur non la raggiungono. E’ probabile che non ci sia niente di più stimolante dell’insoddisfazione per migliorare la propria esistenza, o la propria società, o la propria condizione. La vera illusione di cui ci nutriamo è che si possa essere felici sempre, e nell’ansia di esserlo non lo siamo mai. Cominciamo a pretendere da noi stessi una reazione a certi stati emotivi negativi senza pretendere che questi non ci siano, cominciamo a pretendere una felicità reale che abbia poco a che fare con la felicità potente e permanente che ci creiamo sui social, cominciamo a pretendere cioè una felicità intermittente, fatta di gioie silenziose, di picchi estemporanei di euforia, di poche risate al centro di giorni no, di soddisfazioni che vengono dalla fatica e dall’impegno, di confronti con persone in carne ed ossa a cui non si ha paura di dire: sono qui e sono autenticamente triste, ma so che non mi serve niente di più della tua vicinanza.