Francesca Ferreri opera oggetti di uso quotidiano, seguendo un criterio di integrazione cromatica e imitazione, creando sculture che mirano a ridefinire i propri confini e identità.
L’intervista a Francesca Ferreri.
Francesca, come hai deciso di essere un’artista? Raccontaci gli inizi, il coraggio di credere nella tua passione.
Non credo di aver mai “deciso” di essere un’artista. È stata una graduale, progressiva, presa di consapevolezza. Nonostante gli impegni, col passare degli anni, siano moltiplicati, ho sempre affiancato altri lavori alla mia attività artistica, per permettermi di affittare uno studio e portare avanti la mia ricerca, senza compromissioni di natura commerciale. Ho lavorato per anni e tuttora mi capita di accettare collaborazioni nel settore del restauro d’affresco.
Il tuo concept artistico parte da oggetti di uso quotidiano. Perché?
Ciò da cui parte la mia “ricostruzione” potrebbe essere definito come un melting pot di oggetti di consumo, giocattoli, ceramiche, materiali industriali, componenti elettriche, ecc. Gli oggetti di uso quotidiano sono tutto ciò che entra nella nostra mappatura mentale, nei nostri percorsi ricorrenti. È consuetudine circoscrivere nella categoria solo quegli oggetti che appartengono ad una sfera domestica, intima, familiare. Per me sono quotidiani anche quegli oggetti che non sono in casa nostra, ma che vediamo tutti i giorni: un lampione, un cartellone pubblicitario, un pezzo di guardrail, ma anche l’atrio di un palazzo, la sua luce, le sue geometrie.
Per approcciarti alla scultura hai strutturato precise tecniche di restauro. Come hai intuito il tuo stile artistico? Qual è stata la tua fonte di ispirazione?
Da piccola ero incantata dai soffitti delle chiese, gli affreschi che ricoprivano le volte. Mi affascinavano più dei quadri appesi. C’era qualcosa di così luminoso in quelle pareti, in quelle opere totali. Inoltre, i dipinti s’intrecciavano all’architettura, rivelandone la presenza, assumendone i confini e nello stesso momento ricreandone otticamente di nuovi. Ero colpita anche da quelle strane chiazze color malta, tipiche dei restauri strutturali. Erano come dei mostri di fango, sembravano agitarsi tra gli angeli e i santi, partecipando alle scene dipinte. Poi ho scoperto le grottesche romane, in particolare quelle della Domus Aurea. Mi colpiva la loro ironia e quell’essenza minimale, così vicina al disegno. Gli sfondi bianchi, le simmetrie divergenti. In genere le mie fonti di ispirazione si costruiscono ogni giorno, attraversano ambiti che non provengono solo dalla sfera artistica. L’ispirazione può manifestarsi nell’osservare con entusiasmo qualcosa che ho sempre avuto sotto gli occhi, ma che in quel momento sembra “apparire”.
Idea di gap, ricordi e restauro: spiegaci il filo invisibile che lega la tua filosofia artistica.
Restaurare (in parole povere) significa conservare e riportare un manufatto o opera d’arte, il più vicino possibile a come doveva essere in origine, senza commettere falsi storici. Il mio lavoro, rielaborando tecniche del restauro sperimentate negli anni, elegge le lacune a soggetto dell’opera e ne esplora il potenziale inespresso. Non utilizzo il restauro quindi in senso filologico-scientifico, ma come mezzo per creare ulteriori immagini, partendo da dati esistenti (oggetti o frammenti, ready-made). Per dilatare i vuoti, immaginarli di nuovo e costruire memorie nuove.
Qual è l’opera a cui sei più legata e quella che ha richiesto più impegno? Come nasce un progetto che vale?
Forse la prima opera della serie Eterocronie, un’integrazione di gesso, resine consolidanti, pigmenti e cera naturale a partire da pochi oggetti. Due barattoli vuoti di deodorante e una molletta in plastica verde bosco. Pensavo a Villa Livia a Roma, l’affresco del frutteto.
Difficile stabilire una formula precisa per valutare i progetti, perché non tutti hanno lo stesso punto di partenza, né lo sviluppo. Alcuni nascono dall’intuito e durante il fare si modificano, a volte imboccando sentieri differenti da quelli previsti; altri progetti possono partire da una posizione concettuale, e può passare molto tempo perché si definiscano. Nemmeno il tempo è una variabile di peso nella questione. La bontà di un progetto non dipende da quanto tempo vi si dedica, ma dall’efficacia raggiunta, non è qualcosa che si possa pianificare.
The WalkMan ha come obiettivo quello di scovare e mettere in luce talenti ed artisti che credono nelle proprie idee. Cosa consigli a chi, come te, ha deciso di investire la propria vita nella creatività?
Consiglio soprattutto di non avere fretta. Lavorare tanto, delineare un ambito di ricerca e pretendere molto da se stessi. Trovare il tempo per sperimentare, ed avere il coraggio delle proprie idee, quando si intuisce di essere sulla strada giusta.