Ho pensato più volte a come proporre l’intervista di Giacomo Guidi, poi mi è bastato rivolgergli le domande di cui non avrei potuto fare a meno per parlare di lui, quelle un po’ scomode, colazione compresa.
Giacomo non è un personaggio, perché la parola stessa negherebbe la sua profonda fluidità. Giacomo non ha etichette rassicuranti, anzi, solo a parlarci non sapresti dire fino a che punto le tue convinzioni possano rimanere stabili. A lui piace levartele, le certezze. Per aprire un confronto, un viaggio, uno scontro.
Giacomo Guidi è una collisione che ha saputo rimbombare nel salotto di Roma, ma anche nei suoi angoli meno conosciuti. Ha saputo risvegliare da un torpore stratificato, proporre freschezza, interazione. Il suo progetto Contemporary Cluster è figlio di questa provocazione ed è terreno fertile di contaminazione. Chi ha visitato Cluster almeno una volta ha capito che non si tratta di un luogo soltanto, ma di un centro energetico che attrae a sé le teste più interessanti. E in questo polo di energia, Giacomo è una calamita in uno spazio multiforme. Una nuova Factory?
Volevo rivolgere alcune domande a Giacomo da tempo, e l’occasione è stata lampante: questo 20 dicembre, Contemporary Cluster ospita un’esibizione e un programma inedito dedicato a Warhol. Non dobbiamo aspettarci nulla di già visto, perché stavolta sarà vivere quest’occasione il vero spettacolo.
Prendete quindi questa intervista, come un manuale di indagine su una delle realtà più interessanti del panorama italiano di questo ultimo periodo. Servitevi pure.
Come ti definiresti e come definiresti Contemporary Cluster? E soprattutto, hai bisogno di etichette per riconoscere quel che fai o le rifiuti proprio per valorizzare quel che fai e quel che sei?
Sono una persona che non può trascendere tra quello che è e quello che fa quindi, con un’unica risposta, penso di soddisfarle entrambe.
Penso che Contemporary Cluster rappresenti il mio progetto più maturo e che, inevitabilmente, è portatore sano della mia esperienza finora. Inizialmente ha indagato fortemente l’arte, il suo mercato e le istituzioni relative. Lì il mio ruolo è stato quello di mattatore di mercato, di establishment e marketer con artisti affermati. Questo sicuramente, insieme alla quantità di mostre organizzate nelle passate galleria e istituzioni, mi ha dato tanta esperienza e metodo, che comunque, ad un certo punto ho iniziato a percepire limitante, mancante di stimoli e falsamente creativo, progettuale e culturalmente interessante.
Da qui la mia volontà di manifestare più me stesso attraverso la mia cultura, il mio gusto e soprattutto la mia visione e percezione delle cose.
Tutto ciò trova, in Contemporary Cluster, un esercizio e una pratica, che progetta e produce una contemporaneità che si nutre quotidianamente di forme sane di interdisciplinarità, dialogo e progettazione fluida.
Cluster è un dispositivo all’interno di un luogo che, ora, è Palazzo Cavallerini Lazzaroni, ma che potrebbe essere spostato in ogni architettura definita o anche no.
È un luogo che ha la prerogativa di essere amplificatore di un pensiero, di un’idea, di un progetto, di una necessità e che viene sfaccettato attraverso quello che, di volta in volta, riconosco essere l’attore o la compagnia teatrale più adeguata a rappresentare i giusti soggetti di un pensiero che voglio approfondire.
È come parlare di dadi. Possono avere 6, 12,36 facce; ogni faccia ha un ruolo diverso ma il nucleo intorno a cui girano è lo stesso.
In fondo, la finalità di Cluster è quella di mostrare simultaneamente tutte le facce nella loro diversità ma esibendo, comunque, il nucleo a cui sono attaccate. Posso essere definito come direttore artistico, creativo, visionario, mercante, gallerista, conoscitore, padrone di casa, operatore culturale. Allo stesso tempo Contemporary Cluster potrebbe essere una galleria, un negozio, un locale, un centro sociale, un salotto buono, un club, un negozio di design, un atelier di moda. Pertanto, rifiuto ogni modalità di etichettatura e preferisco essere, eventualmente, definito curatore di un pensiero contemporaneo.
Cos’è un etichetta?
L’etichetta è sempre stato un tentativo, da parte dei più deboli, poveri, paurosi o meno capaci, di definire una fenomenologia. L’etichetta è un perimetro che tutti vogliono creare e in cui tutti vogliono stare per avere una definizione di sé stessi e dell’altro. Tutto ciò, apparentemente, è estremamente rassicurante, sia per chi etichetta, perché pensa di aver arginato un fenomeno, sia per chi viene etichettato, perché pensa di essere stato compreso o almeno definito. Invece, purtroppo, è rientrato solo in una modalità di controllo per i molti.
Per etimologia Cluster è anche una fenomenologia atomica.
Un atomo, per definizione, anche se stabile, continua a girare su sé stesso e sulla sua orbita, producendo continuamente energia e avendo sempre una forma evolutiva. Anche a questo mi ispiro.
Sicuramente sono una persona che non ha accettato compromessi, che si è sempre esposta mettendo faccia e nome sia in caso di vincita che di perdita. Essendo stato un atleta, inevitabilmente, questa concezione della vita mi è rimasta addosso.
Se dovessi descrivere il tuo percorso come persona in tre momenti o aneddoti, quali sarebbero? Sarebbero gli stessi a livello professionale? Quali sarebbero le tre opere che meglio racconterebbero di te?
Sintetizzare 3 momenti della mia vita che mi rappresentano, avendo 37 anni ma avendo già vissuto abbastanza intensamente, lo trovo abbastanza complesso. Potrei raccontare di quando, nel 1998, vinsi il mio primo campionato del mondo e quando, esattamente dopo 8 anni, decisi di non rientrare più in una palestra di scherma, come poi ho fatto. Oppure di quando, a 22 anni, ho avuto una figlia ed ho deciso di prendermi le mie responsabilità, pur comprendendo che ero giovane e non sapendo quali pieghe avrebbe preso la mia vita. Potrei raccontare di come, con la stessa determinazione e costanza, ogni giorno pianifico e produco sforzi per creare contatti e progetti anche avendo la sensazione che, alle volte, le persone non capiscano il motivo e lo sforzo. E comunque vado avanti, da 16 anni, a fare questo lavoro.
Sicuramente le 3 delle opere che mi rappresentano e a cui sono molto vicino, sono il “Quadrato grande nero” di Malevich del 1915 per purezza, forma e mostruosa semplicità e, soprattutto, per grandezza di pensiero.
Inoltre, il “Futurismo rivisitato a colori” di Mario Schifano del 1965 in quanto, Schifano, per me rappresenta il Re di Roma. Un personaggio che, con estrema dinamicità e semplicità ha attraversato 40 anni di storia, ha vissuto come è morto ed è morto per quello per cui è vissuto, portando Roma a dialogare con il Mondo ed essendo stato più capito dal Mondo che da Roma.
Per finire la “Conversione di San Paolo” di Caravaggio, del 1601. L’opera inevitabilmente mette in dubbio la fede e dimostra tutta la violenza e la brutalità e quindi la strada da cui viene. Amo tutto quel genere di arte che, pur elevandosi ed essendo universale, riesce a non perdere la sua storia, la sua provenienza, la sua bestialità. L’arte non è esclusivamente estetica a sé stessa. Più è capace di produrre bellezza più simultaneamente afferma che possa esistere un fattore corrispondente in negativo, altrettanto potente. In Caravaggio la bellezza è squisitamente proporzionale alla ferocia espressa ed alla sua Verità. Per tanto è vero.
Che processo creativo segui nella tua progettualità?
Parlare di processo creativo è una dinamica che riconosco e che faccio più sviluppare all’artisticità stessa. La mia parte viene un po’ prima, io riconosco il processo creativo in un artista e in base a quello intendo coinvolgerlo o svilupparlo all’interno di un progetto.
Più che processo creativo, che collego all’artisticità, preferisco parlare di metodo di progettualità artistica. Bisogna mettersi in testa che i ruoli, gli spazi, definiti all’interno della processualità creativa e della metodologia progettuale sono cambiati completamente.
Bisogna accettare il fatto che i luoghi progettuali non sono più quegli altari consacrati alla progettualità e in cui l’artista canonico può essere il solo a definirsi come sacerdote.
La velocità e i metodi comunicativi hanno portato una nuova modalità di conoscenza, apprendimento e fusione. Le tecnologie applicative permettono la risoluzione di molte problematiche. Per tanto, mai come ora, il vero artista è colui che ha un pensiero forte e che si nutre di varie metodologie ed espressioni, non essendo schiavo del mezzo ma utilizzando il mezzo che meglio lo rappresenta.
Le categorie si stanno assottigliando: designer, architetto, pittore, sculture, performer, video artist, questo metodo a compartimenti stagni sta crollando. Quello che emerge, ormai, è la necessità della condivisione, sia della memoria storica che del pensiero fluido contemporaneo.
Il futuro è di chi ha l’abilità di muoversi, tramite ponti temporali, con molta agilità, ridisegnando visioni ed atmosfere estremamente contemporanee che partono da grandi tradizioni antiche. La fenomenologia shock del contemporaneo, arrivato dal nulla, ha già dimostrato come, in brevissimo tempo, quei fenomeni sono iniziati e, alla stessa velocità, finiti. Questo perché, la cultura contemporanea non si basa su un pensiero forte radicato ma, esclusivamente, sulla necessità di trovare un fenomeno assimilabile, ma privo di qualsiasi tipo di allaccio o vicinanza, con avanguardie storiche o fenomenologie realmente esistite che hanno attraversato la temporalità. Per cui sono finte.
L’unica cosa realmente contemporanea è ciò che viene dalla tradizione. Anche il concetto di rottura nasce da una necessità storica, che, però, si basa su un movimento di avanguardia che si contrappone al periodo di maniera scandendo la movimentazione del pensiero artistico. Pertanto, ci sono dei momenti in cui simultaneamente c’è qualcuno che porta avanti un’idea, forma o immagine, in maniera esclusiva o, al massimo supportato da alcuni suoi pari che vedono le cose nella stessa maniera, che avrà modi e tempi di essere assimilata e quindi sarà futuribile, intercorre la maniera, ovvero manieristi che non fanno altro che rileggere e lavorare ciò che fu l’avanguardia, adagiandosi su di essa, facendone una smorfia ma non portando niente di nuovo.
Arte o marketing?
Il contemporaneo non può più portare ad una scissione di questi due elementi. Per molto tempo il mercato dell’arte è stato visto come un sistema che poteva fare a meno delle economie e non essere caratterizzato da dettami imprenditoriali tipici di altri settori. Questo perché i primi imprenditori dell’arte erano personaggi fuori da dinamiche commerciali. Inoltre, per l’artista, fare mercato era una voglia e necessità ma vivere tramite la vendita delle proprie opere era per molti una chimera.
I primi galleristi erano o nobili o persone vicine agli artisti che, per passione, trascorrevano il loro tempo aiutando a proporre il lavoro dei loro amici. Le gallerie erano appartamenti privati, sale di caffè e ristoranti in cui gli artisti si ritrovavano. Le fiere non esistevano, non c’erano aste, era un approccio all’arte ancora romantico.
La durezza e altezza delle grandi ricerche concettuali degli anni ’60 e ’70 aveva dato vita ad un’arte esteticamente anemica, amena e algida, difficile da collezionare a livello domestico. Dagli anni ’80, invece, con la rigenerazione economica, anche l’arte creò il proprio mercato, progettando artisticità che avevano capacità estetiche che soddisfacevano una voglia di acquisto.
Nacquero fiere che creavano reti internazionali di contatti e rapporti, le gallerie iniziarono ad essere società con diverse sedi nel Mondo e creando economie importanti portando a diventare l’arte contemporanea un bene rifugio o un prodotto bancario con tutti i pro e i contro.
Ancor di più, dopo questo breve excursus storico, ormai le due parole sono indivisibili. è anche vero che, se parliamo di quel settore, l’arte è praticamente scomparsa per le necessità del marketing stesso. Ovviamente invito a riflettere sul fatto che questa dinamica è estremamente sovrapponibile a qualsiasi processo imprenditoriale con richiesta, domanda, risposta, vendita, mercato.
A oggi, il mercato dell’arte, come qualunque mercato di ogni forma artistica isolata, è arrivato alla sua fine, il marketing contemporaneo e del futuro sarà far capire alle persone da dove vengono le cose, perché sono importanti e attuali, progettando e creando spazi dove il fruitore venga a contatto con più forme di estetica, dove gli impulsi siano ampli e vari, luoghi dove si vedono e si percepiscono situazioni, velocemente in cambiamento.
L’uomo contemporaneo, per essere definito tale, deve essere all’interno delle cose e le deve percepire con velocità. Contemporaneo significa che è nel suo tempo, con il suo tempo e per il suo tempo. Per tanto, il tempo che è intorno a te ha una dinamica di percezione che si è già conclusa. L’uomo contemporaneo è una persona, con un’altissima capacità di percezione delle cose. Essa determina un pensiero, il pensiero determina un’estetica, l’estetica determina uno stile, lo stile determina la quotidianità della vita.
L’artisticità è una declinazione e deve essere completa, non deve avere segmenti, non deve avere parzialità. Immaginiamo un filo che passa all’interno della cruna di più aghi, in maniera costante, continua, senza interruzione.
Per me l’arte e il marketing, anche se sono diventati la stessa cosa, non sono fondamentali, al contrario, credo nella grande potenzialità, inespressa in Italia, dell’economia culturale, non basata sulla biglietteria di siti archeologici storici o mostre blockbuster, ma dettata dall’aumento e sistematismo di luoghi, festival e iniziative che, come nel Rinascimento, portino l’uomo al centro delle cose e lo rendano superiore, producendo, di conseguenza, anche un’economia, in quanto, ogni individuo, a prescindere dall’età, nel momento in cui subisce sollecitazioni estetiche, visive, sonore e ambientali può andare ad arricchire il suo processo percettivo e creativo, riportandolo nelle proprie attività e nella propria vita personale.
Questo dà alle persone la possibilità di iniziare a vedere le cose da prospettive, angoli e quote diverse.
Persona o personaggio?
Come non immagino divisibile la mia persona da quello che sono e faccio, non posso limitarmi a definirmi come l’uno o come l’altro. Mi piacerebbe essere percepito esclusivamente come un evidenziatore, un attivatore, un narratore di ciò che sta accadendo. Le esperienze artistiche, lo stile, la cultura visiva, sonora e applicativa vanno inevitabilmente a tarare una persona, dandogli degli acumi di personalità, di modalità e di stile.
Far propria una libertà espressiva, una libertà estetica non vuol dire autodeterminarsi personaggio o essere una maschera ma essere coerente con quello che uno fa.
Pertanto, essere manifesto di quello che uno fa è giusto, essere la caricatura di un pensiero lontano da sé no. La persona può essere anche personaggio, il personaggio non può essere anche persona. Con persona identifico un individuo con un proprio pensiero e qualità che ha la possibilità di manifestare le sue doti tramite un’estetizzazione.
L’estetizzazione fine a sé stessa è eccezionalmente effimera, veloce, caricaturale e teatrale.
La tua prossima mostra sarà su Andy Warhol. Non un’esibizione ma un modus vivendi che vuole coinvolgere e proiettare gli ospiti del Contemporary Cluster in una dimensione vibrante. Qual è la mission di questo programma e come pensi di poter far rivivere le vibes della Factory ai tuoi ospiti? E perché dovrebbe essere diversa dalle stra-abusate mostre pop sul tema?
Partendo dal principio che non parlo di ciò che fanno gli altri, mi limito a dire che negli ultimi anni i progetti espositivi su Andy Warhol sono stati esclusivamente legati a banali allestimenti, di varie tipologie, delle sue opere, che, già per concetto, sono sempre le stesse, aggiungendo, al massimo, la tipica e estremamente conosciuta filmografia.
Si fermano ad un livello epidermico delle fenomenologie, che è la cosa più facile, fermandosi all’iconicità delle cose.
Non cercando di nascondersi all’interno della concezione del pop e di ciò che è facilmente assimilabile a Warhol, il mio tentativo, citando Jules Verne, è quello di andare all’interno della Terra, esplorando quella che è stata la sostanza magmatica che ha poi materializzato le idee dell’artista.
La concezione estremamente positiva, gioviale, solare, pubblicitaria che viene data del suo lavoro, nasconde il cinismo, la malattia, la deformazione, quasi patologica, della sua visione della realtà.
Lui faceva diventare bellezza elementi che non hanno estetica ma che, tramite il suo trattamento, la acquisivano. Personaggi fallimentari, inetti, perdenti diventano star. Luoghi sporchi, degenerati diventano luoghi di creazione. Lavorava osservando la realtà e come, personaggi della realtà, accadono di diventare la sublimazione dell’uomo, in quanto, l’uomo vero cade e sbaglia, non è perfetto. Un re Mida che ti fa diventare oro da morto.
Tutti i personaggi con cui ha lavorato sono, volontariamente, stati lasciati a sé stessi. Non li ha mai salvati da problematiche, vizi e stili di vita che avrebbero portato alla distruzione. Distruzione da cui lui estraeva la bellezza, pensiero non lontano da una natura morta di Morandi.
Pertanto, come può una persona pensare di aver capito quando in un quadro di Warhol vede solo Marylin. È lei, è vero, ma Warhol testimonia tutto quello che c’era dietro al suo viso: una donna problematica, una donna la cui vita è misteriosa e tanto quanto la sua morte, una maschera meravigliosa di una vita consumata in modo ossessivo.
Personaggi alterati da sé stessi e dalla condanna di essere quello che erano diventati per il popolo. Martiri? Potrebbe, sicuramente di sé stessi. Non era un giudice, non era un Minosse, era un Caronte, un traghettatore, una persona che creava un ambiente, da lui studiato, in cui vedeva le persone come fossero dei pesci in un acquario.
Vivere, amarsi, morire, crollare, cadere, risorgere di questo era spettatore e questa era per lui la realtà.
Quindi, la mia mostra, sarà diversa perché vuole riprodurre questa condizione ambientale basata sul situazionismo puro, su quello che ogni giorno poteva accadere dal inserimento, in un luogo, di varie persone che lui sapeva come avrebbero interagito e cosa avrebbero generato.
Come puoi capire la serie dei Flower se non hai nelle orecchie i Velvet Underground e se, magari, non sei sdraiato su di un materasso con alcool e droga in corpo.
È come se avesse cannibalizzato “Le déjeuner sur l’herbe”, non c’è più la compagnia felice ma ci sono persone in un recinto che, pensando sia sicuro, si trovano alle prese con i loro demoni, viaggiando dentro sé stessi, tramite quello che viene loro offerto.
Nel momento in cui Warhol diceva che nei suoi quadri non c’era nient’altro oltre a quello che veniva visto, era una grande bugia e mentiva sapendolo. Un grande genio non racconterebbe mai il suo metodo. Una persona così intelligente aveva la piena condizione di quello che stava determinando.
Come selezioni le opere Pop che mostri nel tuo spazio? Quanto rischio corri nella scelta di un opera che può favilmente oscillare tra il commerciale, irriverente o ricercato? E va bene sia commerciale proprio perché Pop?
La selezione delle opere rappresenta parte di un grande progetto, le opere sono gli elementi che rappresentano le schegge di un pensiero. Non mi interessa, quando le scelgo, pensare alla facilità o popolarità, funzionano accomunate ad un pensiero, funzionano perché sono accordate. Fine a sé stesse sono delle bombe senza la carica.
Non si può escludere le opere dal percorso che vuoi definire, ogni volta, un’opera, in base a collocazione e inserimento in un contesto, viene rigenerata. è una batteria che si nutre del contesto e da ciò che ha intorno a sé. L’opera, senza scomodare Adorno, non funziona se non ha davanti un fruitore.
Nel momento in cui ti poni davanti un’opera apri una dinamica di scambio, in quanto, l’opera stessa, funziona solo per colui che la genera, poiché è il risultato di un suo pensiero. Il circuito, però, si può chiudere solo quando impatta nelle coscienze altri e viene rigenerata e definita dalla coscienza del fruitore.
Cosa vuole il popolo? Cosa vuoi tu?
Maria Antonietta diceva che al popolo bastasse il pane, non ha fatto una bella fine. Il popolo qualsiasi cosa tu dia, ne vuole sempre di più.
La parola popolo per me non ha una sonorità interessante, nel senso che non faccio cose per avere il plauso del popolo, lo faccio in primis per me e perché vorrei dare la possibilità a chi ritenesse interessante ciò, di entrare in contatto con la mia metodologia. Per tanto, quello che voglio è un sano scambio tra pubblico, critico e non, con ciò che è la mia produzione. Inerentemente al popolo, lo lascio alla politica.
Quello che posso dire, utilizzando persona e non popolo, è che le persone vogliono sogni, immagini, realtà a cui affezionarsi, in cui creare, in cui immaginare, avendo la possibilità per un momento di vivere qualcosa che non gli appartiene e non pensando alla realtà che da popolo sono costretti a vivere ogni giorno.
Ricordando quello che diceva Sartre rispetto al fatto che nell’arte le persone vedono solo ciò che conoscono. Ciò dà una grande responsabilità al sociale e conferma la necessità che il popolo venga arricchito di cultura, arte e studio dando basi solide, favorendo interesse, premiando il talento.
Più i sistemi sono facili più è facile controllare la massa e questo avviene non dando strumenti di spiccate capacità o aumento del talento. Si sono fatte scelte per il livellamento delle menti e non per tirare fuori talenti nascosti. L’arte serve anche a questo.
Roma è un buon terreno per osare?
Il vero problema è che ci siamo dimenticati cos’è Roma, o meglio, per comodità, abbiamo voluto accettare che Roma fosse solo una città piena di monumenti, dove si mangia bene e con negozi importanti. Dimenticare ciò che di grande è stato fatto qui permette di vivere in maniera leggera, quando invece artisti e operatori culturali dovrebbero sentirsi in debito con quello che questa città ha fatto, ospitato e prodotto.
A me personalmente, che il mondo venga qui per visitare il Colosseo non interessa, che le persone siano in fila per i Musei Vaticani può anche far piacere, ma non posso pensare che mettiamo la gente in fila solo per vedere cose fatte 300 anni fa, continuandoci a cullare nella grandezza che il passato ci ha lasciato.
Sarei felice di vedere gente che viene da New York per una mostra, uno spettacolo o un concerto, e non solo per le mostre al Vittoriano. Sarei felice di rivedere attori, registi, poeti, filosofi, letterati ripopolare un bar del centro storico sapendo che oltre a prendere un caffè puoi entrare in contatto con la gran parte dell’intelligenza contemporanea e sapendo che quel luogo è una tappa obbligata per qualunque personaggio interessante che viene dal mondo, speranzoso di entrare in contatto con noi, la nostra bellezza e pensiero.
Da un punto di vista della parola osare, sicuramente è apparentemente facile osare qui, in quanto c’è poco. È estremamente facile ritagliarsi spazi o essere sulla bocca di tutti. È anche vero che con la stessa velocità con cui qui si diventa leoni, si ritorna coglioni per la città e poi su e giù di nuovo.
La storia racconta: Roma non vuole re, è una città cattiva, invidiosa, fatta di observers, in cui mancano mentalità creative in sana competizione tra di loro.
Negli ultimi anni si sono manifestate nuove possibilità; vedo giovani volenterosi, vedo progetti che nascono in città e a cui auguro di durare. A Roma non è facile aprire una cosa, è difficile rimanere vivi.
Se per definizione Roma è la città eterna, potresti avere risultati dalla città se ti metti in testa di vivere quanto lei.
Tutti quanti vorrebbero venire a Roma se avessero un motivo per farlo ma la città ha deciso di auto limitarsi, autodefinirsi e di non parlare una lingua globale. Ci siamo scordati da dove veniamo.
Cosa hai mangiato questa mattina, e cosa non mangerai tra un anno?
Caffè doppio, fette biscottate integrali con la marmellata, 4 biscotti al cacao magro, succo d’arancia.
Probabilmente carne rossa. Ho sempre mangiato tutto, in qualsiasi momento. Sicuramente “Eros e Civiltà” di Marcuse mi ha rovinato.
Che spazio sarà domani Contemporary Cluster?
Uno nessuno centomila. È un’idea velocemente in evoluzione. Dopo quattro anni, esclusivamente in città, per me, il prossimo passaggio è portare contenuti e metodo fuori da qui e aumentare l’importazione qui di fenomenologie ancora sconosciute a Roma. Definire dei ponti culturali, proprio per l’amore che ho per la mia città. Come già detto prima, mi piacerebbe che il mio lavoro portasse a fare pensare a Roma non solo come la città del Colosseo e di San Pietro.
Un consiglio, se sia giusto dispensarne, ai giovani che vogliono percorrere la carriera artistica in Italia.
Il mio consiglio è quello di rimanere e combattere per stare in Italia. Purtroppo, è necessario, all’inizio, fare in modo che il proprio esito e futuro non dipenda solo da ciò che in Italia viene fatto o no. È fondamentale per un artista vivere e lavorare qui, per ampiezza, grandezza e bellezza. È vero, però, che a livello finanziario ed economico siamo indietro.
Eviterei qualsiasi forma snobistica che spesso molti artisti hanno, di fare finta di non aver bisogno di nessuno quando, magari, hanno alle spalle una famiglia che gli permette di fare questo lavoro. Vorrei ricordare a tutti che Giacomo Balla è morto di fame.