Intervista a Greg Jager inserita nella mostra Riscatti di Città presso Palazzo Merulana.
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Come definiresti la tua pratica artistica? Come dialoga con il territorio?
Non sento l’esigenza di definire in qualche modo ciò che faccio. Mi piace pensare alla pratica creativa come qualcosa di non didascalico, che abbia molteplici possibilità e soluzioni di lettura della realtà che mi circonda. Riguardo il dialogo con il territorio, il mio lavoro nasce nella strada ed è lì che trova la sua primaria fonte di ispirazione e di restituzione creativa. L’architettura e le persone che la abitano sono un’importante fonte di ispirazione e ricerca, ma trovo l’ispirazione anche in altre forme creative: la musica, il design, la grafica e la fotografia.
Che rapporto si crea tra l’arte urbana e la rigenerazione?
Il tema è un po’ delicato. Spesso quando si parla di operazioni di arte urbana nelle periferie o in piccoli centri di provincia si tende a parlare di “riqualificazione”. Faccio difficoltà a conferire un’accezione positiva a questa parola che spesso viene usata volgarmente per indicare le azioni di “decoro urbano” che promettono la risoluzione di tutti i problemi di un determinato territorio attraverso qualcosa che si autodefinisce “arte”. Per questo motivo, nel mio caso specifico, preferisco parlare di “antropizzazione”: la pratica artistica nella sfera pubblica dovrebbe spingere lo spettatore a porsi delle domande nuove, trascinarlo oltre la propria comfort zone. Disturbare, se necessario, per aprire nuovi scenari. A Roma c’è ancora tanto lavoro da fare sotto questo punto di vista.
Rispetto alla tua attività nel corso degli anni quali cambiamenti hai percepito a Roma da un punto di vista sociale e culturale?
Nel corso degli ultimi 20 anni ho avuto modo di interagire con la città sotto molteplici forme. Il mio percorso è iniziato alla fine degli anni ’90 come graffiti writer e così è proseguito per tutta la prima decade dei ’00. In quegli anni ciò che praticavo era percepito dall’opinione pubblica come “inaccettabile”. Il mio obiettivo era dipingere il più possibile e archiviare le mie azioni attraverso foto e video. Non avevo una strategia né un messaggio dietro le mie azioni, le facevo e basta.
Nel 2009 conobbi un gruppo di persone che organizzava mostre di “street art”, parlando con loro spesso si dibatteva sulla vecchia tematica che metteva a confronto la street art (intesa come pratica accettabile) ed i graffiti (intesi come pratica inaccettabile). Cercavo di fargli capire che non si poteva parlare di street art senza avere un occhio sulla scena dei graffiti, perché erano due lati, seppur diversi, della stessa medaglia. Nacque nel 2010 dalla nostra comunione di intenti un festival dal nome “Outdoor” in cui ho collaborato per le prime 3 edizioni. 10 anni fa era molto difficile parlare di graffiti ad un ampio pubblico e il mio obiettivo personale era quello di provare a spiegare alla società che la sottocultura dei graffiti è un bacino molto vasto da cui sono emersi talenti dell’arte contemporanea internazionale e grazie ad Outdoor festival ebbi l’opportunità di coinvolgere artisti come Martha Cooper, Zedz, Brus, Andrea Nelli. Penso che quello che abbiamo fatto in quegli anni ha contribuito allo sviluppo di nuove modalità di fruizione culturale, soprattutto da parte di un nuovo e ampio pubblico più giovane. Il cambiamento che ho notato negli ultimi anni è che tutte le pratiche urbane che in passato percepivo “di nicchia” oggi sono mainstream. Per questo motivo oggi è fondamentale a Roma spingere la ricerca e la sperimentazione verso nuovi e avanguardistici confini.
Come si pone Roma nello scenario delle avanguardie urbane?
Dopo un periodo favorevole tra il 2012 e il 2018, Roma è ora fuori dalla mappa delle “città creative” (se così possiamo definire le città virtuose nel favorire i processi culturali). Credo sia un momento di grande riorganizzazione della città e sono sicuro che le nuove generazioni si divertiranno molto perché in questo momento è tutto da reinventare.
Che prospettive vedi per questo ambito? Come si evolverà la cultura urbana e la riqualificazione degli spazi?
Non ne ho la più pallida idea. Quello che so è che a Roma c’è bisogno di agevolare la classe creativa con la concessione di spazi, in modo da favorire nuovi modelli di impresa e di fruizione culturale. Purtroppo la domanda supera di gran lunga l’offerta e spesso artisti, grafici, fotografi (in alternativa ad abbandonare la città) sono costretti a lavorare da casa perché sostenere un affitto di uno studio è davvero oneroso, soprattutto per chi è agli inizi. Allo stesso tempo penso a tutti quei luoghi al centro di Roma che giacciono circondati da recinzioni e lamiere, ormai diventate parte dell’arredo urbano. Penso sia necessario far incontrare domanda ed offerta, non solo per il bene delle classi creative ma per il benessere di tutta la città.
In copertina: Metamuseo – Greg Jager – 2018 – Macro Asilo
Foto di Simone Galli
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