Dopo 138 anni, 300 opere messe in scena e 18 mesi di chiusura, il Metropolitan Opera House di New York ospita per la prima volta sul palcoscenico l’opera di un compositore afro-americano, il trombettista jazz e Grammy Award winner Terence Blanchard.

Sabato scorso, il 23 ottobre, lo storico teatro tra la 39° e la 40° strada a Broadway, il Metropolitan Opera House apre la sua stagione di concerti, di debutti e di nuovi progetti, con Fire Shut Up in My Bones.

L’opera era prevista per la stagione 2022/2023 ma dopo i movimenti Black Live Matters, il Direttore Generale del Met, Peter Gelb, pensa ad un cambio di direzione e chiama personalmente il compositore.

L’autore dell’opera è Terence Blanchard, conosciuto per le colonne sonore di alcuni film di Spike Lee, oltre ad aver composto ed aver preso parte alla performance di oltre 30 ulteriori colonne sonore. Blanchard è inoltre stato direttore artistico del Thelonious Monk Institute of Jazz e dell’Henry Mancini Institute della Miami University.

Nell’era post-Wynton Marsalis, Blanchard è diventato uno dei più importanti suonatori di ottoni, bandleader, artisti discografici, compositore di colonne sonore e leader nella comunità post-bop mainstream.

Con oltre 40 colonne sonore al suo attivo, Blanchard e Mark Isham sono i musicisti jazz più ricercati che abbiano mai composto per il cinema

Blue Note records
Il baritono Will Liverman

La trama è tratta dall’omonimo libro di Charles M. Blow, giornalista e opinionista del The New York Times e commentatore politico su CNN e MSNBC. Si tratta di un libro di memorie e racconta la toccante storia del giovane Charles, cresciuto a Gibsland, nello stato della Louisiana, e della scelta di percorrere la strada della sua vita con coraggio, cercando di superare le ansie, i punti di rottura e le sofferenze vissute in passato.

Il libro viene affidato a Kasi Lemmons, attrice e regista  in attività sul campo da oltre 30 anni, che con Fire Shut Up in My Bones si cimenta nel suo primo adattamento di un libro di memorie in un libretto.

“Qui stiamo parlando del Metropolitan Opera, dove ad un certo punto alle persone di colore non era consentito essere sul palcoscenico…”- Camille A. Brown

Alla produzione prenderanno parte il baritono Will Liverman, il soprano Latonia Moore, il soprano Jacqueline Echols, il tenore Chauncey Packer e il baritono Christopher Kenney, diretti dalla bacchetta di Yannick Nézet- Séguin, mentre la coreografia è affidata a Camille A. Brown, anche co-director dell’opera.

Camille lascia un’intervista (rilasciata per il Met Opera e che potete trovare qui https://www.metopera.org/season/2021-22-season/fire-shut-up-in-my-bones/ ) e dice con visibile emozione che anche durante le prove non stesso aspettando altro che quel palcoscenico. Come darle torto? È lei stessa ad affermare che, riguardo un passo, lo step dance, “volevo davvero una coreografia con una step dance. Qui stiamo parlando del Metropolitan Opera, dove ad un certo punto alle persone di colore non era consentito essere sul palcoscenico e stiamo parlando di un passo che proviene dalla diaspora africana e da una ricca storia

Step dance

The Met, the country’s largest performing arts institution, opened in 1883, and in its 138 years has put on some 300 titles. Not one has been by a Black composer.

The New York Times

Per quanto riguarda l’aspetto musicale, è interessante notare come il compositore abbia fatto fondere le sue radici naturalmente e squisitamente jazz con alcuni dei caratteri principali dell’opera, inteso come genere musicale. Secondo le prime recensioni del The New York Times e dello stesso Metropolitan House, Blanchard utilizza “il linguaggio della musica jazz con richiami gospel, tutto assolutamente a favore della cantabilità“, il che vuol dire cercare di immaginare tutto come se avesse la potenzialità di cantare: i passi, le note, le parole. 

“Let everything sings”

La stessa Lemmons commenta questo concetto così importante ai fini di quest’opera quando, mentre abbozzava il libretto dell’opera la musica di Blanchard, ricordava costantemente la dritta del compositore “let everything sings”. Ed è infatti così che il Met lo descrive, “uno stile che inizia con l’incalzare del ritmo del testo e di una serie di cui progressioni, da cui emerge la melodia”.

“Quando ascolti la Bohème di Puccini, sai che quella prima sequenza d’apertura, quelle battute sono la maggior parte delle volte potrebbero esser basate su una sola armonia tonale, da lì poi tutto cambia; io compongo come un compositore jazz, dove hai a disposizione colori che cambiano ogni due battute, come una composizione jazz standard. Ciò che sto cercando di fare è di unire questo concetto di base a quello che sta accadendo di recente nell’opera”.

Terence Blanchard

Zachary Woolfe, giornalista del The New York Times, scrive nel suo articolo riguardo l’arrivo di Fire nell’iconico teatro dicendo “ A Black composer finally arrives at the Metropolitan Opera”, aggiungendo l’avverbio finalmente.

Di certo, Blanchard non è stato il primo compositore di colore nella storia del Metropolitan a proporre un’opera. Infatti, il compositore William Grant Still (1895-1978), primo afro-americano a condurre un’orchestra professionale negli USA, ha più volte proposto opere al teatro newyorkese tra cui Blue Steel e Troubled Islans, reputate come inconsistenti o “scritte da dilettanti”.

Come lo stesso Blanchard afferma, “Ne sono onorato, ma non sono il primo a meritare di essere qui”.

Non c’è da sperare che non sia l’ultimo, così come augurarsi che questo tipo di eventi diventino sempre meno rari e che si fondino con la programmazione dei teatri in quanto dovrebbe essere assolutamente naturale che i luoghi d’arte rimangano aperti a tutti, alle nuove idee, ai nuovi artisti e, in questo caso, a tutti i compositori contemporanei, senza alcuna discriminazione. È fondamentale ed affascinante come la musica e le arti continuino ad interfacciarsi con la contemporaneità, cercando il modo e lo spazio di farsi ascoltare ed intendere, probabilmente più di prima.

È proprio su questo che Yannick Nézet- Séguin, direttore d’orchestra di Fire Shut Up in My Bones, si sofferma: “L’opera deve saper comunicare la realtà del nostro tempo. Dobbiamo ancora saper certamente raccontare il messaggio di Verdi, Wagner e Mozart perché hanno un messaggio da comunicare anche oggi. Ma semplicemente quella non racchiude l’intera storia. L’intera storia racconta anche riguardo ciò che le persone vivevano negli anni 60, 70, 80, e riguardo il modo in cui un compositore che vive ora nel ventunesimo secolo è capace di interpretare quelle storie a cui ci si relaziona cosi da vicino.”