Siamo davvero sicuri di nascere liberi? Il genere è la prima etichetta che ci viene messa addosso appena vediamo la luce.
Con la frase “Congratulazioni, è un maschio” arriva la valanga di caratteristiche identitarie che un uomo deve avere per essere degno di questo attributo sociale; e la mascolinità tossica è figlia legittima di queste ridicole e claustrofobiche aspettative.
No, non ce lo dice la natura cosa sia una donna o cosa sia un uomo. Il genere è un costrutto totalmente inventato, non fisso, non scritto. Tuttavia, c’è chi lo vede come una legge cosmica inappellabile che assegna caratteristiche fisse agli individui e posizioni gerarchiche nella società. La nostra generazione fortunatamente riesce a uscire dagli schemi della soffocante e innaturale binarietà, ma è comunque complicato svelare l’essenza artefatta del genere. Anche la categoria più privilegiata, quella maschile, è in fin dei conti semplicemente una storiella. E un parallelo con l’età classica o con la civiltà romana ce lo conferma.
Per i greci l’uomo ideale era quello omerico, l’eroe; ma lasciare la questione così sarebbe riduttivo e svilente. Per i greci l’uomo giusto era un uomo bello, in un mondo dove simbolicamente la dimensione del bello era molto ampia: il bello è percezione di esso e amore per l’estetica. Il corpo era la manifestazione fenomenica della bellezza interiore, e veniva allenato nel ginnasio, dove gli uomini rigorosamente nudi (ginnasio deriva da un aggettivo che significa appunto nudo) avevano un contatto estremamente fisico. A noi può sembrare un comportamento quasi omosessuale, ma anzi per loro era addirittura virile e mascolinizzante. È la donna invece a rendere più “effeminati”; donna da cui ci si tiene ben lontani, potenzialmente capace di inibire la mascolinità dell’uomo.
Il bello come concetto di superiorità spirituale, oltre che mera questione estetica, non arriva a Roma. Nella capitale dell’impero infatti, la mascolinità e il valore di un uomo non si esprimono attraverso la bellezza e la cura del corpo, bensì attraverso la dignitas, quel senso di equilibrio ed eleganza dei modi di fare che rimandano a un’interiorità casta e a una moralità retta. Questo differente criterio di interpretazione scaturisce una diversa percezione delle immagini e dei segni: la nudità è fortemente sessualizzata e fonte di un taboo più forte. L’identificarsi uomo a Roma infatti passa attraverso pratiche codificate molto importanti, tra cui il matrimonio, centrato sul tema della fecondità; la procreazione è prerogativa fondamentale nella vita di un civis: sei un uomo adulto e rispettabile se sposi una donna con cui procreare e generare altri cittadini romani. Dunque, la dimensione più intima e individuale dell’essere uomo, come in Grecia, si perde.
Lontani dalla Grecia e dall’antica Roma, chi è oggi un uomo? In una società globalizzata come la nostra, dove le culture sono sciolte in un unico fluido magmatico, che non conosce cristallizzazione, quand’è che un maschio diventa un uomo? In maniera provocatoria e generale possiamo dire che un uomo è prima di tutto una non-donna. Significa elevarsi a uno status superiore gerarchicamente, dove il contatto con il femminile diventa la sua consumazione, sottomissione e manipolazione, uniche conferme oggi per un maschio di essere un uomo nella sua società. Guardare la donna, toccare la donna, macellare la donna in mille pezzi da inquadrare con una fotocamera, è l’unica cosa che un uomo può fare per sentirsi diverso e superiore da essa. L’esempio più becero e recente è quello del gruppo telegram dove i partecipanti si scambiavano foto di ragazze; quando invece nei miti greci un uomo che guardava una donna era un pusillanime, che spesso finiva per essere accecato da qualche dea, come successe a Tiresia.
Questa toxic masculinity nasce dalla paura e dalla disperazione del vuoto identitario; appartiene a quegli uomini che per sentirsi qualcuno non hanno altro a cui aggrapparsi se non le convenzioni. Morirà quando gli individui avranno il coraggio di auto-definirsi senza che il genere sia fondamentale per questo scopo. E non parlo di un mondo necessariamente genderless e senza differenze: è proprio l’assenza di diversità infatti a creare uno standard di fabbricazione che di fatto soffoca la libertà; sei solo libero di essere “normale”. Eguali non significa uguali; la ricerca di un’unica modalità esistenziale implica necessariamente esclusività, lasciando sempre qualcuno al margine. È proprio sbandierando il diverso, l’anormale e l’atipico che si combatte l’idea di un’identità convenzionale, l’idea che ci debba sempre essere un canone di riferimento con cui confrontare un individuo per decidere quanto valga. Peccato che questo canone non sia dato né dal giudicante né dal giudicato, è semplicemente il risultato dell’ossessiva necessità di dover misurare tutto, incasellare qualsiasi cosa appartenga al reale, chiuderla in scatole, ingabbiarla in degli schemi.
Ma la vita non è una tabella; e in fondo forse lo sappiamo, perché sono solo le cose assurde e incollocabili a farci provare qualcosa.
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