Se Haas, Leiter ed Herzog hanno sdoganato l’utilizzo del colore nella fotografia artistica, Eggleston, Shore e Meyerowitz, esponenti principali di quella che verrà definita New Color Photography, l’hanno portata ad un livello superiore.
Tra gli anni ’50 e i ’60 si è assistito allo sdoganamento dell’utilizzo della pellicola a colori nella fotografia, partendo da Saul Leiter che pone le basi nel 1948, anno dopo il quale si assiste a una fase fisiologica di sperimentazione del nuovo linguaggio.
Questo porterà ad una maturità nello sfruttamento delle possibilità date dal colore che verrà esplicitata nelle fotografie di quelli che vengono considerati i massimi esponenti della New Color Photography; William Eggleston, Stephen Shore e Joel Meyerowitz.
William Eggleston è considerato l’anello di congiunzione tra i pionieri e la New Color Photography, è il primo fotografo, nel 1976, a realizzare una personale di fotografie a colori al Moma di New York, paradossalmente aveva iniziato a scattare in bianco e nero ispirato da Il momento decisivo di Henri Cartier Bresson, ma la sua carriera si dirigerà verso un linguaggio completamente diverso, se non opposto per molti versi. Quando apre la sua personale al Moma riceve una totale stroncatura da parte della critica, addirittura Ansel Adams scrive una lettera di lamentele al museo. D’altronde quella di Eggleston è una rivoluzione copernicana dello sguardo, la sua attenzione per il banale è totalmente opposta all’idea del momento decisivo, i cui adepti ritenevano l’approccio di Eggleston noioso e poco interessante.
Se le sue opere non hanno il potere di essere sensazionalistiche hanno la capacità di plasmare una realtà ordinaria e banale attraverso luci, forme e inquadrature che puntano a rendere interessante la banalità.
Eggleston chiama “sguardo democratico” il suo interesse per gli oggetti marginali; contestualizzando questa operazione negli anni ’70 si tratta di una azione impattante e visionaria, quella visione andrà oltre le prime stroncature e sarà metabolizzata dalla cultura visiva, influenzando tantissimi fotografi successivi, uno su tutti Stephen Shore.
Stephen Shore è il padre della New Color Photography, un maestro assoluto del colore, fotografo precoce; a 14 anni si presenta da Edward Steichen, allora direttore del Moma, che acquiste tre delle sue fotografie, a 17 lavora con Andy Wharol, a 24 ha la sua prima personale, al Metropolitan Museum di New York.
Prende da Eggleston l’attenzione per il banale, portandolo nel paesaggio, a differenza di chi lo ha preceduto in questo campo, Shore non si limita alla ricerca del sublime nei suoi paesaggi, nelle sue fotografie c’è sempre un segno umano, il territorio è sempre modificato dall’uomo che compare solo attraverso gli elementi con i quali modella l’ambiente, un approccio molto simile a quello che negli stessi anni si sviluppava in Italia con Luigi Ghirri.
Questo approccio si vede già nel primo lavoro di Shore, American Surfaces, nel quale gira l’America da Manhattan ad Amarillo in Texas, ma l’apice di questo sguardo si trova in Uncommon Places, progetto figlio di nuovi viaggi on the road per gli Stati Uniti tra il 1973 il 1981. In questo nuovo lavoro si assiste ad una evoluzione formale, figlia del passaggio ad un banco ottico e, conseguentemente, ad un approccio più lento e ragionato. Il paesaggio di Shore diventa denso di elementi, a tal punto da risultare banale ad un occhio poco attento, mentre la sua immensa forza è proprio nel saper condensare e posizionare sul singolo fotogramma una sintesi perfetta di tutti gli elementi che si parano davanti ai suoi occhi e riesce a farlo senza rendere la fotografia confusionaria ma, anzi, indirizzando sempre lo sguardo grazie a delle composizioni perfette, il suo sguardo riesce ad elaborare una quantità impressionante di elementi e a metterli in una relazione che renda l’opera il più fruibile possibile allo spettatore.
La potenza dell’immagine fotografica prodotta da Stephen Shore nasce da una composizione capace di poter trasformare dei potenziali elementi di disturbo in elementi caratterizzanti dello scatto, stando nella difficoltà senza fuggirne.
Il percorso artistico di Joel Meyerowitz è piuttosto diverso da quello tracciato dagli altri esponenti della New Color Photography; inizia a scattare volgendo il proprio sguardo nella direzione del reportage e della fotografia di strada, dopo un iniziale periodo in cui scatta in bianco e nero si converte definitivamente al colore, gira spesso le strade di New York insieme a Garry Winogrand, suo amico, e documenta tutte le situazioni che si sovrappongono nella metropoli statunitense, la simultaneità di piccoli momenti rivelatori che avvengono in contemporanea, il modo in cui questi stabiliscono una relazione tra di loro e come le persone reagiscono a questi momenti è il fulcro della prima ricerca di Meyerowitz.
Il 1976 è l’anno della svolta, acquista un banco ottico del 1938, suo anno di nascita, e cambia completamente il suo sguardo, va via temporaneamente dalla confusione di New York e passa un’estate nella sua residenza estiva di Cape Cod, una località balneare della costa orientale degli Stati Uniti, lì il suo sguardo si fa più riflessivo e pacato, si dedica alla cura della luce e delle inquadrature, creando un progetto cardine della fotografia a colori; Cape Light edito nel 1978.
La sua poetica si fa più intimista e ricercata, il suo lavoro palesa tutte le sfumature espressive che la pellicola a colori consente al fotografo, l’utilizzo pioneristico di questo strumento da parte del fotografo newyorchese, insieme a Shore ed Egglestone, contribuirà all’accettazione della fotografia a colori come espressione artistica, senza più dubbi sulla validità di questo linguaggio.