Vera fotografia è un’espressione che viene frequentemente utilizzata per demonizzare l’utilizzo di Photoshop nella fotografia digitale, nonostante questa non esista.
Per vera fotografia si intende spesso una fotografia che, necessariamente, non abbia subito alterazioni, ritocchi o quant’altro, nel momento che va dallo scatto all’edizione o stampa della foto stessa.
Anche Gianni Berengo Gardin, un maestro della fotografia di reportage, ha sposato questa terminologia, tanto da dare il titolo Vera fotografia ad una delle sue ultime mostre.
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Ora, non si vuole in nessun modo discutere la caratura artistica di un fotografo come Gardin, ma l’utilizzo di questi termini per indicare una fotografia scevra da alterazioni, e quindi più pura delle altre, non ha senso in nessun modo.
Per tracciare un percorso oggettivo sull’argomento, evitando opinioni faziose, bisogna fare delle premesse tecniche, per rendere il tutto più comprensibile anche a chi non ha confidenza con sviluppo e stampa fotografica. La demonizzazione della postproduzione digitale, che incarna spesso in Photoshop il male supremo, viene dalla convinzione che il digitale abbia perso l’aura che invece la pellicola ancora conserva.
Anche qui, facendo una digressione e recuperando filosofi come Walter Benjamin e Georges Didi – Huberman, capiamo che la fotografia si impone nel mondo dell’arte nell’800 come prima e unica forma d’arte che non conserva l’aura, la questione dell’originalità dell’opera, essendo questa, per la prima volta, riproducibile tecnicamente, anche in pellicola si ha un negativo e da questo si possono replicare tecnicamente infinite stampe della stessa foto senza che nessuna di queste sia l’originale, ma tutte copie effettuate dallo stesso negativo, quindi la forza della fotografia è stata proprio quella di entrare con forza nella storia dell’arte con la capacità di stravolgere la suggestione intorno all’aura e all’originalità dell’opera mettendo in difficoltà gli addetti ai lavori per decenni per capire se la fotografia fosse considerabile un’arte o meno, proprio per questo motivo.
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Una stampa fotografica non è un quadro di Van Gogh, il secondo non è replicabile, è unico e originale, la prima no, senza che questo sminuisca il valore della fotografia attorno alla quale, come dice Benjamin ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica; “era stato sprecato molto acume per decidere la questione se la fotografia fosse un’arte, ma senza che ci si fosse posta la domanda preliminare: e cioè, se attraverso la scoperta della fotografia non si fosse modificato il carattere complessivo dell’arte”.
Tornando alle questioni tecniche, si deve sapere che la fotografia, intesa come processo che va dallo scatto alla stampa della foto è concettualmente identico sia che si tratti di fotografia analogica sia che si tratti di fotografia digitale. È risaputo che nella fotografia a pellicola l’immagine viene impressionata su un negativo, che ha la necessità di essere sviluppato in camera oscura per diventare una fotografia, o meglio una stampa fotografica, e durante questo processo si prendono una serie di accorgimenti per decidere esposizione, contrasto e altre caratteristiche del prodotto finale.
La stessa cosa che accade con il digitale; un fotografo professionista scatta normalmente in Raw, un formato elaborato dalla macchina diverso dal normale Jpeg che si conosce normalmente per le immagini, un formato grezzo che mantiene più informazioni ed è più manipolabile in fase di postproduzione, tanto che viene considerato la versione digitale del negativo in pellicola.
La foto scattata in raw, quindi, ha la necessità di essere sviluppata attraverso una fase di postproduzione, che può passare da diversi software. di cui uno dei più famosi è Photoshop, e durante la quale si decidono esposizione, contrasto e altre caratteristiche del prodotto finale, proprio come in pellicola, tanto che questa fase in alcuni software viene chiamata sviluppo.
Se questa fase viene saltata, la macchina fotografica può comunque produrre un Jpeg, e quindi un’immagine pronta all’uso e già sviluppata, con l’enorme differenza, però, che lo sviluppo è stato fatto dalla macchina in fase di scatto seguendo degli automatismi imposti, e quindi il fotografo ha deciso di non controllare la realizzazione dell’opera fotografica dall’inizio alla fine, ma di affidarne una fase ad una macchina.
È importante quindi capire che il processo fotografico comprende almeno due fasi, lo scatto e lo sviluppo (a questi si può aggiungere la stampa), e che il fotografo è colui che dovrebbe controllarli entrambi, lo sviluppo è parte integrante del processo e non un vezzo.
Analizzate le premesse tecniche non ci sono più grandi considerazioni da fare, si palesa infatti il fatto che la scelta di utilizzare un software di postproduzione, nella fotografia digitale, non è un’opinione, ma è una parte fondamentale del lavoro del fotografo, importante tanto quanto la fase di scatto. Ignorare questa significa lasciare che la metà del lavoro sia affidato a degli automatismi e, ça va sans dire, un fotografo non dovrebbe permetterlo.
L’analisi tecnica del processo fotografico, che sia digitale o analogico, dice inequivocabilmente che, quella della vera fotografia, altro non è che una retorica spicciola per chi non conosce il processo fotografico. È poi ovvio che Photoshop è uno strumento potentissimo che ci permette di stravolgere totalmente l’immagine e va usato con buon senso, per non cadere nei paesaggi con cieli ipersaturi o, in generale, in ritocchi poco credibili, ma come in ogni campo non si deve demonizzare mai lo strumento, piuttosto bisogna capirne il giusto utilizzo, e soprattutto bisogna comprendere che la postproduzione esiste anche nella fotografia analogica, che le luci e le ombre si sistemano anche in camera oscura – chiedere a Mario Giacomelli –, così come si effettuano ritocchi di ogni genere, e che la sola scelta del rullino con cui si scatta è già una postproduzione a priori.