Il più grande sogno ed al contempo la più grande paura che si ha pensando al futuro è quella di continuare ad avere passione per quello che si è deciso di fare nella vita. Può sembrare una scommessa, un’incognita da non poter determinare, invece fondamentalmente si tratta di un percorso, un’impegno che si deve prendere con se stessi. Trovare la propria strada, sbagliando, deviando, ma comunque cercando finché non si raggiunge l’obiettivo. Una volta determinato bisogna impegnarsi a tenere il punto, con sacrificio e costanza. Solo così arriveranno anche le soddisfazioni.
Paradigma, questo, che si è concretizzato nella vita ed esperienza di Marco Galofaro, modellista ed architetto romano.
Sono stata nel suo studio, Modelab. E lì ho potuto vedere in prima persona il lavoro e la minuziosa scrupolosità che si deve riservare per ogni passaggio della lavorazione dei modelli. Come un alchimista, deve cercare la formula giusta, la tecnica migliore per garantire l’integrazione fra i vari materiali e colori.
Il perfetto equilibrio.
Come è nata la passione per i modelli architettonici?
Quando andavo all’università io non c’erano i computer ed è una cosa importante perché ti dà la pratica del disegno a mano,che è fondamentale. Io non sapevo disegnare benissimo, sapevo disegnare a mano, ma non disegno tecnico, quindi cercavo un sistema di espressione per le mie idee e mi è venuto molto naturale lavorare con le mani. E’ quello che ho sempre fatto, è quello che sempre mi è piaciuto fare. Ho cominciato all’università a lavorare con i modelli, piano piano questa cosa è diventata una sorta di segno distintivo nel senso che mi venivano bene, riuscivo a pensare attraverso il modello all’architettura e l’ho sviluppato.
E così è nato Modelab?
Prima di laurearmi ho fatto un’esperienza all’estero, di un anno presso lo studio di Peter Eisenman. Ho chiesto a lui di seguirmi come relatore per la tesi su la Fenice, a Venezia. Sono andato a New York per fare la tesi e Eisenman mi ha chiesto di fermarmi nel suo studio. Anche lì lavoravo con i modelli. Mi sono laureato (ovviamente il progetto che ho fatto sentiva l’influenza del lavoro di Eisenman) e subito dopo ho iniziato a lavorare allo studio di Fuksas. Dopo due anni e mezzo di onorato servizio in cui ho dato molto e preso tantissimo, ho aperto il mio studio per curare solo l’aspetto modellistico, abbandonare il lavoro progettuale, quello del mestiere dell’architetto, perché ho pensato che quello che mi piace fare è questo, lo faccio bene e poteva diventare un lavoro.
Modelab è nato nel 2002, come si è evoluto nel tempo?
E’ nata prima la collaborazione con lo studio di mio fratello ( Luca Galofaro, socio degli Ian+ ), lì appoggiavo le loro ricerche con le mie opere. Così è diventato un lavoro, perché attraverso i modelli che ho fatto per loro hanno iniziato a conoscermi e sono arrivati i vari clienti. Il nucleo fondamentale di questo studio siamo io e Ilaria Benassi, poi nel corso degli anni si aggiungono persone, stagisti che vengono a lavorare e fanno un’esperienza qui. In questi 15 anni abbiamo costruito un nome ed un certo tipo di approccio al modello,che non è quello canonico, ma è più sperimentale. Quello che metti nel lavoro sono le suggestioni, il bagaglio culturale che ti porti dietro, i film che vedi, i libri che leggi, tutte le immagini che ti attraversano, anche per fare questo non dico che studi però ti prepari, ti informi, scorri quello che c’è in giro.
Joseph Conrad disse “ quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando”, non pensi che sia una frase che fai tua quando inizi veramente ad essere un architetto?
La prima cosa che dico sempre è che devi capire fondamentalmente cosa ti piace fare, nel momento in cui hai bene o male chiaro quello che ti piace devi adoperarti per farlo diventare il tuo lavoro o quello che diventerà la gran parte della tua vita. Io ho cominciato volendo fare l’architetto e quindi ho fatto esperienza negli studi di architettura importanti per fare il progettista a tutto tondo. Nel corso degli anni ho capito che in realtà quello che mi veniva meglio, quello che veramente mi dava piacere era studiare il progetto attraverso i modelli. Quello che avete visto nella mostra (“Be the poem” che si é tenuta alla Fondazione Cerere ) fondamentalmente è un atteggiamento che io ho nei confronti dell’architettura, a me piace fare quello e lo faccio, non ho neanche la velleità di dire che sono dei progetti, alcuni potrebbero anche esserlo, altri non lo sono, sono le mie ricerche. Ci ho messo molto tempo a capire che questa era la mia strada e molti anni anche ad accettare il fatto che mi sono messo a fare il modellista. Spesso sei guardato come uno che fa una cosa tangenziale rispetto all’architettura, in realtà lavori sul corpo di questa, a volte molto più di quando non si progetti direttamente. Contemporaneamente ho una libertà che un progettista non ha, avendo determinati temi e vincoli. Faccio questo perché l’ho scelto: per lavoro realizzo modelli per gli altri, architetti e artisti, ed è una cosa che fai mettendoci un impegno mostruoso ed un esercizio costante.
Ma è difficile il distacco da queste opere che fai?
Nel corso del tempo impari. O meglio, fino a che è qua dentro è mio, nessuno ci deve mettere bocca, poi quando il modello esce fuori da questo studio pensi già al prossimo, non rimani affezionato, perché è una cosa che si conclude, è un percorso che ha un inizio ed una fine, può durare un periodo di tempo variabile, però ha una conclusione.
Dai miei lavori invece non riesco a staccarmi, le ho finite per la mostra tutte le cose che vedete. In 10 anni non l’ho mai fatto, sono cose volutamente non terminate, perché non riesco a separarmene, che è un limite enorme. Se devi fare un lavoro c’è una parte di te che non deve essere troppo coinvolta, quando lo è, invece, è difficile creare una linea di separazione che mantenga il tuo pensiero e lo stacchi, non hai nemmeno la capacità di giudizio rispetto a ciò che fai. Una parte di te deve essere sempre coinvolta e sempre distante. Fondamentalmente è anche questo il nostro lavoro. Il nome non è mio, certo si riconosce la mia impronta nel modello, però non è il mio progetto, quando ci lavoro lo sento come mio ed è l’unico modo per poter fare una cosa a 360 gradi, nel profondo.
Lavori come professore allo Ied ed hai lavorato a Roma Tre, è cambiato il tuo modo di insegnare?
Il mio metodo di insegnamento è il medesimo, la cosa difficile da insegnare è quello che faccio. La progettazione affronta un aspetto anche teorico, di teoria sul modello ne potremmo pure parlare per due mesi consecutivi, però è un tipo di lavoro anche profondamente pratico che presuppone tecniche, un approccio reale, costruttivo, non è semplice trasmetterlo. Puoi insegnare solo facendolo fare. La difficoltà che incontro è non avere gli strumenti giusti, per questo porto gli studenti qui in studio, che è il mio biotopo, dove ho tutto e posso far vedere come si possono fare le varie lavorazioni. Qui ho un magazzino sempre fornito, anche in eccesso, per non correre il rischio di trovarmi in difficoltà se mi richiedono un lavoro rapido e non avrei tempo di ordinare il materiale.
Altro limite ovviamente è che non puoi richiedere allo studente di comprare tutto l’occorrente. Puoi far vedere come si lavora, però poi sta a lui applicarsi nella pratica. Chi viene a lavorare qui, per esempio, le prime volte arriva in studio e non fa niente, deve stare lì fermo a guardare o a mettere a posto per capire dove sono disposti i materiali, oppure a passarmi l’occorrente mentre io lavoro. Questo tipo di mestiere è come le botteghe artigiane del ‘200: si ruba con gli occhi, si impara osservando. Per far parte di questo studio bisogna rispettare il mio standard, quella che è la mia visione. Richiedo di affrontare il lavoro in un certo modo e per fare questo ci vuole tempo, devi capire anche come ragiono, se lo fai poi ti sai relazionare e quindi posso dare compiti sapendo che saranno assolti come se li stessi facendo in prima persona.
Nel panorama italiano è un po ferma la sperimentazione rispetto all’estero, secondo te quali sono le cause?
In Italia è ferma la sperimentazione, non c’è. Anche gli studi interessanti hanno poca possibilità di realizzare, di costruire, è un circolo vizioso. Puoi anche fare ricerca, però poi arriva un momento in cui questa deve essere verificata sul campo, costruendo. Se non hai questa possibilità ad un certo punto ti fermi, diventa piuttosto complesso, anche perché le imprese di costruzioni giocano sul sicuro, non si avventurano in cose che non sanno se riescono a vendere. E’ un campo molto difficile e forse anche questo mi ha spinto a scegliere quello che faccio, poiché ho la libertà che un progettista non ha.
Ai tuoi studenti consigli di andare un po fuori?
Secondo me è un’esperienza che ti apre la testa, ma certo, inevitabilmente ti influenza, ti arricchisce. Fino a poco tempo fa dicevo andate all’estero e poi tornate, ora non sono nemmeno sicuro se tornare. Non so se cambieranno le cose ed in quanto tempo, però è una situazione disarmante, molto difficile, poi sembra sempre lo stesso discorso, ma io ho fatto la scelta di stare qui, cosciente del fatto che se fossi andato fuori avrei anche guadagnato di più: lavoravo e guadagnavo di più ed ero più sereno. Qui sei costretto a limitarti, anche perché gli studi che vengono da te non hanno un budget illimitato, sei costretto a barcamenarti e non è facile. Io sono fortunato, ho uno studio che è mio, quindi ho una libertà maggiore di scelta, e poi ho la possibilità di star qui, d’ altra parte mi rendo conto che ormai ho una certa età ed andar via sarebbe un’idea forte, anche perché ho una famiglia.
In conclusione io un’esperienza fuori la consiglio vivamente, poi si può anche ritornare, perché no.
La cosa principale che puoi fare è sapere quello che vuoi, il segreto è tutto là. Non saper fare una cosa, quello si apprende, io lavoro da 20 anni e ancora ora apprendo, capisco nuove cose. Il segreto però è capire veramente “cosa voglio fare? Che cosa è che mi piace fare? Quale è quello per cui sono portato?” Tutti rimangono sempre interrogativi, come se fosse una cosa impossibile, in realtà lo sanno tutti molto bene.
Poi ti puoi raccontare tutte le cazzate che vuoi, ma dentro lo sai, ciò che vuoi e ciò che ti piace, tutto sta anche nel tuo sacrificio, ti ci devi applicare. Devi sempre mettere sul piatto della bilancia quali sono le tue scelte, i tuoi limiti e necessità. Se sai quello per cui sei portato e il metodo per farlo, hai anche la possibilità di farlo bene, che non è male. E’ questione di impegno, è sacrificio. Il mio lavoro è un grande gioco ed una grande ossessione. Io sto sempre in studio, ora ho una famiglia per cui mi divido, prima stavo sempre qua, dalla mattina alla sera non mi interessava altro, era questo che mi piaceva fare ed è questo quello che volevo fare. Ora ho un occhio diverso, però se sai dove vuoi arrivare è una questione di studio, devi metterti lì ed applicarti costantemente, anche i plastici che vedete alla mostra sono plastici di esercizio, provo, vedo, cambio. Io i plastici bianchi poi non li so fare, sperimento ogni giorno qualcosa da cui traggo insegnamento. Impari da quello che vedi, da quello che fai, impari dalle persone con cui collabori. L’importante è sapere quando farlo, come e perché.
Come ti relazioni con chi ti commissiona dei lavori?
Una questione importante è anche il “Perché faccio quello che sto facendo?” Chi di dovere me lo chiederà ed io devo saper rispondere. Bisogna imparare ad argomentare, ed anche velocemente, devi conoscere il motivo che ti spinge ad agire in un determinato modo, anche perché se sei sicuro di quello che fai convinci anche l’altra persona. E’ una capacità che si deve acquisire da soli, non si impara all’università,né la facoltà deve insegnarvi questo, lo si sviluppa tramite la curiosità, spaziare in tutti gli ambiti. All’inizio ci si mette tutto, poi piano piano inizi a togliere ed arrivi all’essenza. A me nessuno ha insegnato a fare modelli, non ho seguito un corso, ho incominciato con i materiali più semplici e da lì ho fatto esperienza. Inizi a sperimentare varie tecniche fino a che non ne conosci una talmente in profondità da riuscire ad applicarla.
E’ giusto che in ambito accademico si tenda a dare dei riferimenti da seguire per produrre progetti?
Copiare è importante, io ho imparato copiando, guardando e imitando quello che facevano gli altri, impari tanto rubando con gli occhi ed è anche normale che se ti devo insegnare do dei riferimenti, anche se molte volte ci si trova in difficoltà, non sempre gli studenti recepiscono il messaggio che cerchi di trasmettere.
Certo poi penso non sia appropriato dare solo un determinato tipo di esempio da seguire, non si lascerebbe la possibilità allo studente di costruire una propria identità e pensiero architettonico.
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The biggest dream and at the same time the greatest fear you have thinking about the future is to continue to have passion for what you have decided to do in your life. It may seem like a gamble or a variable you cannot estimate, but basically it is a path, a commitment you engage with yourself. You have to find your way making mistakes or diverting, but still trying until you reach your goal. Once you have determined it, you have to take on holding out, with sacrifice and perseverance. That is the only way to get satisfactions too.
Paradigm, that is what Marco Galofaro, roman pattern maker and architect, realized in his life and experience.
I went to Modelab, his atelier. There I saw bodily the work and the meticulous scrupulousness that should be reserved for each step in the processing of the models. Like an alchemist he searches for the right formula, the best technique to ensure the integration of the various materials and colors. The perfect balance.
How did your passion for architectural models arise?
When I attended university there were no computers. This is important because it gives you the practice of drawing by hand, which is crucial. I couldn’t draw very well. I could draw by hand, but not technical drawing. So, looking for a system to express my ideas, it came very natural to me to work with the hands. That is what I have always done and what I always liked to do. I started at the university working with models. Little by little, this thing became a sort of particularity, in the sense that I was good. I succeeded in thinking through the architectural model and I developed it.
That is how Modelab born?
Before graduating I experienced abroad, a year in Peter Eisenman’s studio. I asked him to follow me as supervisor for my thesis on the Venice’s Fenice. Then I went to New York to make the thesis and Eisenman asked me to remain in his atelier. Even there I worked with models. I graduated (of course the project I made had Eisenman work’s influence) and soon after I started working at the Fuksas’ atelier. After two and a half years of honorable service in which I have gave a lot and got more, I started my own atelier to deal only the modeling aspect. I left the project work, the architectural job, because I thought that this is what I like do. I am good, and it could become a job.
Modelab was born in 2002, how it evolved over time?
First I started collaborating with my brother’s atelier (Luca Galofaro, associate with the Ian+). There I supported their researches with my works. So it became a job. Through the models I made them I started to get known and than have come various clients. Ilaria Benassi and I are the core of this atelier. Then, over the years, many people joined, trainees who come to work and receive here. In these 15 years we built a name and a certain kind of approach to the model, which is not the canonical one, but it is more experimental. A suggestion is what you put in the work, the cultural baggage that you carry around, the movies you see, the books you read, all the images you experience. Even to do this, I am not saying that you need to study, but sure you need to prepare yourself, to inquire, to skim what is out there.
Joseph Conrad said, “When I look out the window I’m working”, don’t you think it is a phrase you feel yours when you really start to be an architect?
The first thing I always say is that basically you have to understand what you love to do. Then, when you got it, more or less, you have to strive to make it your job or what will become an important part of your life. I started off wanting to be an architect, so I gained experience in important architectural ateliers as to become a 360 degrees designer. Over the years, I realized that actually what I did best, what really I loved was to study the project through the models. What you saw in the show (“Be the poem” that will be open until May 11th at the Fondazione Cerere) is basically my attitude towards architecture. I like doing it and I do. I don’t even have the vain ambition of saying that those are projects. Some may be, while others are not projects. They are my research. It took me a long time to realize that this was my path, and many years even to accept the fact that I started to do the pattern maker. You are often looked at as someone who does something tangential, compared to architecture. Actually you work on the body of architecture. Sometimes a lot more than when you project directly. At the same time, I have a freedom that a designer doesn’t have, with certain issues and duties. I do this because I have chosen it. My job is realizing models for other people, architects and artists. And this is something I do by putting a monstrous effort and constant practice.
But it is difficult the detachment from these works do you?
In the course of time you learn it. Or better, until it stays here it is mine; no one can get a word on it. Then, when the model comes out from this atelier, I already think of the next one. You don’t ender to it because it is something concluded; it is a path that has a beginning and an end. It can last for a variable period of time, but it has a conclusion. While I cannot tear myself away from my works. All the things that you see, I end up for the exhibit. In 10 years I have never done it. There are things that are deliberately unfinished, because I cannot part with it, and this is a huge limitation. If you do a job, there is a part of you that should not be too involved. When it is, instead, it is difficult to create a line of separation that keeps and unplugs your mind. You don’t even have the ability to judge what you do. A part of you has always to be involved and always distant. Actually this is our job too. There is not my name. Of course you recognize my footprint in the model, however, that is not my project. When I work on it I feel it mine and it is the only way to do one thing at 360 degrees, really deep down.
You are a professor at the IED and you worked at Roma Tre University. Does your way of teaching have changed?
My method of teaching is the same. It is hard to teach what I do. Design deals with theoretical aspects too. We might talk about the theory of the model for two consecutive months, however, it is a kind of work deeply practical too, and that requires techniques, a real approach, a constructive one. It is not easy to transmit it. The only way of teaching it is doing it. The difficulty I encounter is not having the right tools, for this I bring my students here in the studio, which is my biotope, where I have everything and I can show how you can make the various processes. Here I have a warehouse always provided, even in excess, not to run the risk of being in trouble if I have asked for a quick job and I would not have time to order the material. Another limitation is that, obviously, you cannot ask the student to buy the entire wherewithal. You may show how it works, but then it is the student that has to apply it in practice. Those who come to work here, for example, at the beginning they do nothing. They just have to stare and watch or put in order to figure out where the materials are, or pass me the materials while I am working. This type of job is like the 1200’s workshops: you steal with your eyes, you learn by observing. To join this studio you must respect my standard, my vision. I require dealing with the work in a certain way and it takes time to do it. You have to understand my way of thinking. Then I can entrust tasks, knowing they will be acquitted as if I were doing it in person.
In the Italian scenario experimentation is quite stationary than abroad, in your opinion what are the causes?
In Italy experimentation is stationary; there is no research. Even interesting ateliers have little chance to achieve, to build; it is a vicious circle. You can also do research, but then there comes a time when this must be verified in the field, building. If you do not have this possibility, at some point you stop. It becomes quite complex because the construction companies play it safe: they don’t venture into things they aren’t sure they sell. It is a very difficult trade and perhaps this reason prompted me to choose what I do; because I have the freedom that a designer doesn’t have.
Do you suggest your students to make experiences abroad?
In my opinion it opens your mind, but of course, inevitably, it affects you, it enriches you. Until a short time ago, I said leave and then come back, now I am not even sure whether to return. I don’t know if things will change and how long it will take, but it is a disarming situation, it is very difficult. Then it always seems the same old story, but I decided to stay here, conscious of the fact that if I went out I would have gained more: I would have worked and earned more and I would have been more relaxed. Here are you stuck, even because the ateliers don’t have an unlimited budget and you are forced to holding up, and this is not easy. I am lucky. I have my own atelier and more freedom to decide. Then I have the opportunity to stay here. On the other hand I know that I have a certain age and leaving would be a remarkable choice, also because I have a family. Finally, I highly recommend an experience abroad. Then you can also go back, why not. The main thing you can do is known what you want; the secret is all there. If you don’t know how to do something, you can always learn. I have worked for 20 years and still I am learning; I see new things. The secret, however, is to really understand “What shall I do? What I like to do? What I am talented for?” Those are questions that seem without an answer, actually everyone knows how to answer very well. Then you can tell all the shit you want, but inside yourself you know what you want and what you like. Sacrifice is another key word; you must apply it. You always have to put on the scales your choices, your limitations and needs. If you know what you are talented for and the way to do it, you also have the chance to do it right, which is not bad. It is just a matter of responsibility, of sacrifice. My job is a great game and a great obsession. I am always in my atelier. Now I have a family so I divide myself, but before I was always here, from morning to evening, I was interested in nothing else; this is what I liked to do and this is what I wanted to do. Now I have a different eye, but if you know where you want to get, it is just a matter of study. You must stand there and apply yourself constantly. Even the models you see in the exhibit are models of exercise; I try, see and change. Then I cannot do white plastics. Every day I experience something in which I get teaching. You learn from what you see, from what you do; you learn from the people you work with. The important thing is to know when to do it, how and why.
How do you relate with your clients?
An important issue is also the “Why I do what I am doing?”. The responsible party will ask me and I have to know how to respond. We must learn to argue, faster. You have to know why you act in a certain way, even because if you are sure about what you do, you will convince the other person too. It is a skill that you must acquire it yourself. You don’t learn it at the university, nor the faculty should teach this. You enhance it through curiosity, expanding in all areas. At first you put everything in it, then you slowly start to take off things arriving to the essence. Nobody taught me how to make models; I didn’t attend any course. I started with the simplest of materials and from there I have experienced. You begin to experiment with different techniques until you know one so deeply to be able to apply it.
Is it right that at the university we are given references to follow to produce projects?
It is important to copy. I learned by copying, watching and imitating what the others were doing. You really can learn a lot stealing with the eyes. It is normal that if I have to teach I give you references, although many times you find yourself in trouble, because students not always incorporate the message you are trying to convey. Then I think it isn’t appropriate to give only a certain kind of example to follow. You would not give the student the opportunity to build their own identity and their architectural thinking.
Traduzione a cura di Daniela De Angelis