Osservatorio è il nuovo occhio spalancato sulla città di Milano, vigile, attento e firmato Prada.
La famosa maison ha propugnato nel corso degli anni uno spiccato interesse nei confronti dell’arte ed i linguaggi contemporanei, dimostrato sensibilmente dall’apertura delle ormai note fondazioni di Venezia e Milano e confermato ulteriormente dall’ennesimo frutto di questa vocazione: l’apertura il 21 dicembre 2016 dell’Osservatorio, una terza sede espositiva sita ancora nel capoluogo lombardo.
Osservatorio è uno spazio interamente dedicato alla fotografia, come indica anche il nome che delinea in un solo colpo la fisionomia del contenente e del contenuto: è infatti collocato al quinto e sesto piano di uno degli edifici centrali della Galleria Vittorio Emanuele II, proprio allo stesso livello della grande cupola che troneggia su di essa. Nonostante questa sua posizione centrale e privilegiata, entrando si ha come l’impressione di valicare il confine per un’altra realtà più discreta, così distante dalle luci accattivanti delle vetrine dei negozi e dalle miriadi di persone che sciamano come api attorno all’alveare. Una piccola oasi nel cuore pulsante e frenetico della città, dove anche gli occhi possono appagare la loro sete.
Tale senso d’intimità non accompagna soltanto il fascino del luogo, ma anche la prima mostra allestita in occasione della sua apertura: Give me Yesterday, a cura di Francesco Zanot. E non poteva che esserci un inizio migliore. Per l’occasione sono stati messi insieme i lavori di 14 autori, molti dei quali giovanissimi, che utilizzano la fotografia come fosse inchiostro fresco di scrittura sulle pagine di un diario personale. Una concezione questa che se trova ampio riscontro già a partire dalla seconda metà del ‘900 con poeti della visione come Nan Goldin, Larry Clark e Wolfgang Tillmans, viene riletta dall’attuale generazione in una chiave innovativa ma soprattutto più consapevole dei nuovi mezzi e modalità espressive. La generazione 2.0 ha imposto come pilastro esistenziale l’idea e la pratica della condivisione: esperienze di vita vissuta, eventi, così come l’immagine di noi e di chi ci è vicino trovano ogni giorno un loro posto in quel grande album che sono ormai divenute le varie piattaforme digitali. L’onnipresenza dell’obiettivo fotografico ha trasformato l’opposizione pubblico-privato in un rapporto dialettico dai contorni sfumati ed imprecisi, in cui ogni cosa si fonde annullando la propria specificità.
Give me Yesterday propone un ampio spettro di possibilità d’impiego del mezzo fotografico, come nelle tipologie del documentario personale di Ryan McGinley, nelle combinazioni dei linguaggi del ritratto posato e dello snapshot nella serie di Leigh Ledare dedicata alla madre, o nella moderna redazione di still life di Maurice van Es che si richiamano esplicitamente al ready made duchampiano. Anche le opere di Irene Fernara, Antonio Rovaldi e Joanna Piotrowska uniscono all’impianto cronachistico e documentario un principio ordinatore metodologico e concettuale, che presuppone uno studio non solo della singola immagine ma anche della sua messa in scena. Ed ovviamente un posto importante occupano anche tutti quei lavori legati alle potenzialità del network, dalle sequenze del photoblog di Wen Ling alle straordinarie autorappresentazioni oniriche di Izumi Miyazaki.
I diari che gli artisti in mostra aprono davanti ai nostri occhi fanno parte di un paradigma che non è più strettamente personale, ma necessariamente collettivo. Non siamo solo noi ad osservare le foto, sono le foto stesse che ci osservano, ci interrogano, ci appartengono.