Paolo Barretta – Il giovane partecipante di Master of Photography 2018 è venuto a trovarci a Roma Smistamento. Ci siamo seduti in Sala Relax e abbiamo iniziato a viaggiare, scoprendo il suo pianeta. Una dimensione immaginifica e introspettiva, definita non solo dalla fotografia ma anche da musica e psicologia.
Paolo Barretta, benvenuto a Roma Smistamento! Oggi esploreremo la tua realtà: come se ti avessimo rapito e trasportato sulla nostra Terra per analizzarti. Anzi, per analizzare il pianeta dei fotografi prendendo te come campione. Un campione con una sua identità, ma pian piano collezioneremo alieni. Quindi partiamo da te e affrontiamo una questione spinosa per gli artisti: le definizioni. Come ti definiresti, più fotografo in senso tecnico o creativo?
Nel periodo che stiamo vivendo la creatività sembra essere accessibile a tutti. È giusto che sia così, però credo sia difficile trovare una creatività che non sia fine a se stessa ma che abbia uno scopo, che possa raggiungere determinati obiettivi. Ancor prima di fotografo, mi definisco una persona che cerca di capire qualcosa e tramite la creatività, la fotografia in particolare, cerco di capire il mondo e me stesso. Tecnicamente o creativamente? Diciamo che sono cose che vanno di pari passo, o almeno dovrebbero. Adesso mi definisco molto più creativo, mi vedo più da una prospettiva pratico-creativa che essenzialmente tecnica. Ho iniziato dal liceo con fotografia analogica, camera oscura e sviluppo, quindi il mio primo approccio con la fotografia non è stato scattare, scattare-rivedere, scattare-rivedere, ma è stato più che altro un pensare, scattare, sviluppare e aspettare. Penso dovrebbe essere così per chiunque voglia intraprendere questo percorso: perché anche se può essere un cliché dirlo al mondo d’oggi, un approccio più tecnico è necessario. Un approccio consapevole con cui poi sviluppare un contenuto creativo. Credo che sia questa la peculiarità che forse riesce a distinguermi dalla massa di persone che creano immagini. Non è semplice creare un’immagine che possa essere comunicativa.
Come definiresti l’obiettivo del tuo lavoro, più estetica o più comunicazione?
Ho iniziato a scattare cercando un’estetica ricercata, perfetta. Seguivo una linea fashion, dell’estetismo più sfacciato. Poi mi sono reso conto che in quello che facevo c’era veramente poco di me; c’era più un tentativo di inseguire una linea commerciale, che in realtà non mi definisce come individuo tanto meno come fotografo.
Da lì ho avuto un periodo abbastanza buio in cui ho smesso di scattare per circa un anno ed è stato un periodo triste della mia vita perché mi sono ritrovato a non creare più nulla. Improvvisamente mi sono svegliato un giorno e, con un po’ di fatica ma in modo naturale, ho iniziato a scattare esclusivamente per me stesso. A creare dei ricordi, delle scene della mia vita, anche delle visioni, delle immagini che mi venivano in testa, senza dover ricercare l’approvazione del mondo commerciale. Anzi ho iniziato ad essere attratto da quello che era il difetto delle cose. Da lì non ho più smesso, ho iniziato a parlare esclusivamente di me perché in tutto ciò che faccio si parla di me, ci sono io. Adesso sto sviluppando un progetto che va verso questa direzione: ho intenzione di comporre un libro. Per come lavoro cerco sempre di coniugare scrittura e fotografia, cercando di completare l’immagine con la scrittura. Sono una persona che si trova nel mondo a fare qualcosa e cerca di parlare di sé.
C’è stata una tua crescita.
Quando cercavo di seguire determinati aspetti della bellezza, dell’estetismo assoluto, nessuno mi considerava. Da quando ho iniziato a far cose che hanno davvero qualcosa di me ho iniziato a prendere piede nel mondo dei social, ad essere più visibile per il lavoro che stavo facendo. Questo mi ha portato infine a Master of Photography.
Quella del fotografo, del creativo in generale, è una vita abbastanza di merda, una vita in cui emergere è quasi impossibile, però forse sto andando nella direzione giusta.
Di tecnico c’è veramente poco nella mia fotografia, c’è ovviamente una ricerca tecnica, però mi lascio molto più andare rispetto a prima. Nel corso del tempo ho imparato a lasciarmi andare, nell’immaginare scenari e anche nella post-produzione.
Quando dici che hai iniziato a parlare di te nelle tue fotografie, nella tua ricerca, che tipo di storia stai raccontando?
Questa è chiaramente una riflessione molto personale: racconto la storia di Paolo Barretta.
Parlo di una persona che si è sempre sentita fuori dal mondo. Sono cresciuto solitario, non ho mai avuto molte interazioni sociali, non per una questione di timidezza, ma perché mi sono sempre sentito estraniato dal mondo, in perenne ricerca di qualcosa che ancora non si ha o, magari, che si ha avuto ma che si è perso.
Sicuramente Il tema principale della mia ricerca artistica è un’assenza.
In quest’ultimo periodo ricerco spazi puliti, molto ampi, anche perché una mia ricerca estetica c’è ancora, semplicemente non è più fine a se stessa.
Ecco con la mia fotografia racconto una storia di assenza, una storia di dolore. Le persone che mi seguono sui social pensano che io sia una persona depressa. In realtà non è così, semplicemente conduco una riflessione su tutto ciò che è il mio spettro emotivo.
Mi sono sempre definito come un un cassetto, enorme, pieno di roba tutta in disordine.
Fondamentalmente questo è anche il tema principale su cui vorrò basare il libro che sto cercando di progettare. Dovrebbe prendere il nome della Teoria dell’Incomunicabilità, per parlare del paradosso della ricerca costante di qualcosa che ti comunichi ma cui tu non riesci ad arrivare.
Ci sono tante cose che non si possono comunicare. Tu hai trovato un modo per poterle raccontare molto bene. Vederti da fuori può far sembrare che tu abbia un determinato stato d’animo. Sei ciò che esprimi o il tuo linguaggio è un modo per comunicare, quanto ti rispecchia la tua scelta artistica?
Mi è capitato che mi abbiano scritto persone sui social chiedendo: “Ma perché includi questi scritti? Credo che non ce ne sia bisogno, anzi potrebbero disturbare la comunicabilità della foto”. Può anche essere fastidioso questo bisogno di voler comunicare in tutti gli aspetti, non esclusivamente fotografici, quello che sento o magari non sento, perché molto spesso cerco anche di esprimere quello che non riesco più a sentire.
Sicuramente non mi definisco molto abile nel comunicare la felicità. Riesco a trovare l’ispirazione molto di più nei momenti in cui mi sento perso.
Qual è il momento in cui pensi di essere diventato un creativo? Cosa ha influenzato la tua visione, la tua capacità di creare immagini?
Io sono nato con una compattina, fotografando i fiori da bambino. Nel tempo mi sono reso conto che fotografare mi faceva star bene, indipendentemente se ci fossi io nella foto. Era qualcosa che sentivo mi riuscisse bene. Oltre alla musica.
La fotografia è la mia grande passione; la musica è la mia ossessione, ha una valore terapeutico per me, una vera e propria valvola di sfogo.
Spesso mi chiedono durante le interviste: “A chi ti ispiri?”. Non ho mai avuto fotografi di riferimento anzi, paradossalmente mi interesso poco di fotografia. Cerco di non guardare gli altri perchè non voglio avere nessun tipo di influenza sul mio lavoro. Le mie ispirazioni nascono dalla musica e dal cinema, scene di vita che voglio imprimere fotograficamente.
Certo una figura di riferimento, a cui magari mi rifaccio poco ma in cui mi rivedo moltissimo, è Gregory Crewdson, un fotografo cinematografico davvero incredibile.
Poi c’è Edward Hopper, un pittore che, soprattutto in adolescenza, mi ha aperto la mente, mi ha aiutato ad avere più confidenza con le mie emozioni. Nelle sue opere sembra quasi che qualcosa sia appena successa o che stia per succedere. Riesce a rappresentare quell’esatto istante a cavallo tra due cose, quindi nel mezzo del nulla.
Una condizione in cui mi ritrovo spesso, soprattutto in questo momento della mia vita: non riesco a crearmi una stabilità visto che cambio città ogni 6 mesi. Questo mi porta ed essere ancor più estraniato dal mondo, alienato nei confronti della vita. Questo è ciò che mi classifica come persona, non voglio dire come artista perché non credo di essere un artista: sono solo una persona che fa cose e che parla troppo.
Com’è stato, per uno abituato a stare dietro la macchinetta, essere rappresentato in un programma televisivo come Master of Photography?
È stata una delle esperienze più belle della mia vita, che non pensavo di poter fare. È arrivata in un momento in cui io stavo quasi dimenticando cosa significa fare quello che ami.
Mi trovavo a Bologna a fare un lavoro che detestavo e mi è arrivata questa opportunità: mi sono immediatamente licenziato. Anche perché sono una persona che pensa veramente poco alle conseguenze, ed è una cosa che mi porta tanti problemi. Appena arrivato lì, però, mi sono reso conto che era esattamente il posto in cui dovevo stare.
Ho avuto l’opportunità di conoscere persone in tutta Europa e di fare una full immersion di inglese. Formativamente parlando è stata tosta ma anche molto soddisfacente, soprattutto per essere rimasto me stesso all’interno di una produzione enorme.
Partecipare mi ha reso orgoglioso, perché non riesco mai a scendere a compromessi, non sono una persona per cui è facile abbandonare la propria individualità, in quello che faccio devo sentirmi dentro.
Senti di aver mantenuto la tua personalità all`interno del programma?
Assolutamente sì in tutte le prove che ho fatto sono sempre rimasto fedele a me stesso, ai miei valori, a quello che voglio comunicare tramite la fotografia.
A volte le prove erano molto specifiche ed è complesso cercare di immergerti, di mantenerti all’interno della cosa, però l’ho fatto e sinceramente va benissimo così. Non rinnego nulla di quello che ho fatto dentro Master of Photography, anzi mi ha aiutato ancora di più a capire che quello che sto facendo è quello che devo fare.
Non è male come considerazione. Hai trovato il tuo posto.
Non sono sicuro che questo sia il mio posto però è un posto che ho preso e, al momento, va bene così. Per me è veramente complesso fare una previsione di quello che farò il giorno successivo. Seneca diceva “La vera felicità è apprezzare quello che si ha, piuttosto che cercare quello che ancora non si ha” e questo penso sia il problema dell’infelicità dell’essere umano: il fatto di voler continuamente cercare quello che non si ha.
Prima ero ancor più confusionario, ero immerso in una bolla di sapone che non mi permetteva di uscire nè di includere all’interno. Difficilmente concedo la mia sfera emotiva, ma sto cercando di lavorare su questo aspetto. Se dobbiamo fare un discorso meno emotivo e più tecnico penso che il periodo storico in cui viviamo sia bombardato di informazioni, di troppi stimoli: è facile dimenticare sé stessi. Bisogna cercare, costantemente, di non dimenticare lo scopo per cui ognuno di noi è nato, perché nessuno verrà a ricordarcelo. E se cadi nel limbo dell’inconsapevolezza è molto difficile uscirne, perché è complesso ricavare del tempo. E se manca il tempo hai già perso gran parte di te stesso.
Bisogna capire in che direzione si sta andando e molto spesso non lo si capisce: io ancora non lo so e credo che sarà così per tutta la vita. La nostra generazione è quella dei figli di nessuno che lotteranno sempre per trovare uno scopo. Questo non significa che non ci debba provare. Io lo sto facendo tramite la fotografia, ma anche tramite la musica che è una porta che non lascio mai troppo chiusa.
Ci ritroviamo molto nelle tue parole, c’è tanta confusione nella nostra generazione. Noi abbiamo trovato la risposta nella condivisione.
Prima non davo molta importanza alla condivisione, lasciavo fuori tutto ciò che era esterno a me. L’isolamento può anche essere uno scudo, una coperta che ti tiene al sicuro.
In realtà non esiste bianco e nero. Non mi interessa del bianco, non mi interessa del nero: in ciò che faccio e nel modo in cui vivo la cosa che mi interessa è la sfumatura, ciò che dona tridimensionalità al tutto. Cerco una sfumatura e cerco i momenti di felicità, che non sono la felicità, ma che possono essere un buon motivo per cui andare avanti. Uno di questi momenti l’ho trovato nella condivisione.
Per quanto possa essere importante la mia individualità, il mio più grande tesoro, un giorno ho capito che non potevo continuare a vivere come un cazzo di recluso. Per quanto nelle mie fotografie voglia comunicare un’assenza, un dolore, che cerco di comunicare anche attraverso una palette cromatica sui toni freddi e i colori pastello: voglio comunicarla a qualcuno. Ho bisogno che arrivi a qualcuno, che ci sia un riscontro.
Molto spesso mi chiedono “Ma tu scatti per te o per gli altri?”. Le due cose, dal mio punto di vista, vanno di pari passo. L’arte è fatta per arrivare a qualcuno, parte da un individuo e l’importante è che arrivi a qualcuno.
Anche perchè mi sono reso conto che se quello che fai è reale, è sentito, a qualcuno prima o poi arriva. Ho bisogno di esprimere me stesso e di sperimentare. Non riuscirei ad immaginarmi come un esecutore, un tecnico. Anzi, ho fatto sempre abbastanza schifo in tecnica, in ciò che è razionalizzare le cose. Io mi butto a destra, sinistra, faccio un passo avanti e quattro indietro, riscopro quello che avevo tempo prima e lo ripropongo in modo diverso, in modo più consapevole. È un viaggio a ritroso, terapeutico, perché inizi a imparare molto di più su te stesso e quindi sul mondo. Perché alla fine non siamo altro che un riflesso di quello che il mondo ci induce.
Paolo Barretta Instagram – @iamwinter