Bianco. Era il colore di questo foglio, vuoto.
Bianco è il colore di una tela prima di essere lavorata, ma non il colore di una mente creativa.
Di fronte al foglio una mente creativa è in subbuglio, sia se ha trovato l’ispirazione sia se le manca del tutto.
Dentro questa testa ingegnosa la ruota dei pensieri gira in direzione di quella tela o quel foglio che nella sua nivea fermezza sbeffeggia quell’inarrestabile moto cognitivo. “Avanti, Forza! Dipingimi! Disegnami! Colorami! Scrivimi!”
Quel sorriso innocente quanto insolente ti sfida nel suo pallore.
Sarai in grado di batterlo? Di traslare quei pensieri dalla tua testa a quella superficie? Non è facile. Ma non puoi continuare a guardare quella tela vuota.
Approfitta dell’idea che c’è ma non trovi. Ogni mossa è un tentativo,un tentativo che non sai se fallirà ma nel momento in cui deturpi quel bianco hai già vinto.
Un sfida. È quella che mi pongo io scrivendo.
Una sfida. È quella che si Pone Paolo Romito ogni volta che cerca di dipingere.
“Stai di fronte al bianco e inizi, senza sapere dove finirai e perché. L’unica cosa che sai è l’emozione o lo stato d’animo che hai, questa è la cosa principale”.
Mi fa vedere un suo quadro, modificato più volte, si chiama “Tentativo fallito”. Gli chiedo se nei suoi quadri risiede la soddisfazione di aver raggiunto quel tentativo o se il loro fascino sia nella ricerca di tentativi irrisolvibili. Lui parla di questa sfida, una questione derivante un pensiero di un grafico giapponese il quale affermava che se quello che si crea riesce a sconfiggere la forza comunicativa della tela bianca, allora ciò che fai ha un senso.
Il tutto riesce quando sei in grado di trasformare quel niente in qualcosa. Per questa ragione ogni quadro di Romito, anche “tentativo fallito” è un tentativo risolto. “I tentativi possono fallire però falliscono sul momento, poi non è detto che qualcuno possa andare sopra e modificarlo” mi dice questo e capisco che se i quadri non riescono subito possono diventare lo sfondo per qualcosa di nuovo che invece riesce ad uscire fuori.
Paolo è un ragazzo di 27 anni, un tipo tranquillo, timido e discreto, ma questa è apparenza. Come tutti gli artisti il suo aspetto è solo il contenitore di quel casino di roba e di pensieri che tutti abbiamo e che lui non ha paura di esprimere, ed anzi, ne va fiero. Cresciuto fin da bambino in mezzo all’arte, la cultura e tanta lettura complessa, dopo una fase di ribellione ha trovato la sua strada iniziando a frequentare la scuola di fumetti . Questo studio ha influenzato tutto il suo stile permettendogli di avere una formazione completa ed è forse da qui che proviene la sua poliedricità.
Paolo si dedica alla grafica, all’astrattismo, alla pittura di figure, e con il suo negozio Acid Drop si è anche dedicato ad abbigliamento ed accessori. Tutto ciò però non è iniziato su un foglio di carta, ma su un foglio virtuale, IL COMPUTER. La sua tela era PAINT , il suo pennello un MOUSE . Mi fa vedere i lavori che fece da ragazzo, tutti realizzati di notte convulsivamente. Perché la rapidità è una prerogativa. “Per arrivare a dire qualcosa che sia VERO , io ci devo impiegare poco. I disegni devono essere impregnati proprio di quello che io sono in quel momento. Se lascio passare quel momento, se aspetto che finisca quella sensazione il quadro non sarà mai autentico e non sarà mai del tutto intriso di quell’emozione”.
Questi disegni su paint raffigurano personaggi , altre volte rappresentano bozze astratte in una variegatura che si rispecchia anche nella sua attuale produzione. Gli chiedo se quando decide di disegnare già sa come si esprimerà : attraverso le figure o l’astrattismo? Sicuramente c’è una grande differenza, spiega: “Se ti metti a fare una figura hai un MOTIVO, UN PUNTO di arrivo per cui lo stai facendo. Il motivo per il quale le cose ti riescono dipende molto dallo stato d’animo in cui stai, ed uno stato d’animo che si adatta all’astrattismo è la SOFFERENZA. Quando faccio figure sono propositivo, so che sto disegnando per qualcosa, per quanto riguarda l’astratto invece sono sempre DISTRUTTIVO” Tutto ciò allora può essere considerato un mezzo di sfogo, un modo per ordinare i pezzi disordinati dentro di sé. Ma questi disegni permettono di uscire dalla sofferenza, o intrappolano in qualcosa di tremendo ma simultaneamente seducente? Paolo mi fa capire che se la sofferenza è vera è difficile che non venga fuori qualcosa di bello, perché qualunque cosa succeda, anche la più triste lui sa che riuscirà a canalizzarla in qualcosa di bello. “Non si tratta di considerare l’arte come consolazione, ma un bisogno che dimostri che non sia vano il soffrire.”
In fondo i momenti più intensi nella vita sono quelli in cui si prova dolore, ma comunicare questa tristezza può consolare il futuro, come un quadro di Van Gogh in cui vive ancora la stessa angoscia del momento in cui l’artista l’ha creato. “Sento una voglia viscerale di urlare al mondo quanto sono bravo. Queste sono cose che a sentirsi verrebbe da dire “ma vaffanculo, sto presuntuoso…” ma è così, chiunque in realtà è così, il fatto sta nell’esprimerlo, solo quello. Sento che tutto ciò come aiuta me può aiutare qualcun altro. Quando qualcuno esprime spensieratezza certamente fa piacere, ma non sono io il cantore della spensieratezza della vita!”
Eh già, Paolo non è il cantore della felicità, piuttosto della tristezza che è verità di vita. Lo si vede nei colori ricorrenti: bianco, rosso e nero, colori che rimbombano dai suoi disegni, come l’eco di una sofferenza vomitata da una mente caotica ed incasinatissima. “Essere incasinati col cervello”, me lo ripete spesso Perché infondo tutti siamo così, ma il ruolo dell’artista è quello di scandagliare a fondo e tirare fuori quello che la nostra superficialità ci fa dimenticare.
E dopo tutti questi casini celebrali arriva a parlare del tema figurativo per eccellenza: le donne. Risponde con un più che lecito sospiro, ovviamente sono una delle cose più belle e da essere umano maschile non poteva non celebrare la figura femminile. Paolo è d’accordo con Freud: la spinta sessuale è una delle cose che ti fa fare qualsiasi cosa durante la vita, una pulsione portante che assume varie forme. Infine spiega quanto sia stata importante l’influenza di Modigliani per le sue raffigurazioni. Dimostra come ha interiorizzato così tanto le facce del celebre artista disegnando lì per lì un prototipo. “É bellissimo vedere come Modigliani abbia trasformato la figura realistica della donna in FORME utilizzando degli escamotage grafici per rendere ancora più emozionante questa figura. La sua genialità sta nella conversione della figura umana in immagine. Così come il collo allungato, gli occhi vuoti permettono alla figura reale di trasformarsi in un’intera superficie. Nel momento in cui sei di fronte ad un ritratto ci si ferma immancabilmente a guardare gli occhi , sede della connessione umana. Ma eliminando lo sguardo dall’essere umano permetti al ritratto di diventare immagine. Ecco perché anch’io non mi soffermo sugli occhi.”
Una censura che interrompe il ricambio di sguardi la si nota soprattutto in GIUDITTA , dove al posto degli occhi ci sono due bocche. Una sostituzione che potrebbe essere vista come una metafora: occhi da baciare o occhi che mordono, senza contare la connessione con il nome dell’ eroina ebraica. Ma Paolo rivela l’inutilità di qualsiasi interpretazione. Tutto è nato per caso: sempre su paint. Ha ritagliato la carnosissima bocca e l’ha messa al posto degli occhi. L’idea ha funzionato perché l’immagine è piaciuta talmente tanto che ha dovuto farne varie versioni. Lo stesso vale per il nome, non c’è alcuna connessione con il mito di Giuditta,gli ha attribuito questo titolo perché gli piaceva. Dare un nome ad un quadro è come dare un nome ad un figlio. “Giuditta non è tra i miei lavori preferiti, ma gli riconosco l’autonomia di essere un’immagine formidabile perché colpisce con efficacia. Ma ribadisco che dietro a Giuditta non c’è niente.”
Gli occhi però non sono l’unica cosa che viene cancellata nei quadri di Romito. Mi parla infatti dell’importanza del concetto della CENSURA, inserita per realizzare quella perenne ricerca dell’originalità che condanna gli artisti. Nei suoi ultimi quadri astratti ha introdotto delle strisce nere. Alcuni ritengono che il disegno sia rovinato, in realtà è solo originale. Una contrapposizione di ASTRATTISMO e RIGIDITÀ che richiama alla modulazione inserita nei poster e nelle locandine, tanto cari a Paolo. “É un discorso legato alla ROVINA. I tagli sulla tela ad esempio in passato venivano considerati come qualcosa che rovinava il quadro, oggi vengono visti come qualcosa di bello. Ora la rovina non è più un taglio sulla tela, o un’immagine sbiadita ma “SPIXELLATA”. Un altro modo per rappresentare i suoi quadri in forme originali è il disfacimento in termini virtuali. Sicuramente perché i suoi primi passi li ha mossi dal computer. È interessante vedere che l’effetto che una spixellatura fa è simile all’effetto che induceva in passato una tela strappata.
Romito ha forse scoperto l’innovazione artistica del secolo, l’originalità che segnerà la nostra epoca moderna? Chi lo sa. Sicuramente finora ha sconfitto egregiamente ogni sfida con la tela bianca, superando la comunicatività del vuoto con la pienezza di colori disordinati, idee innovative e figure ipnotiche. Ora Paolo sta per lasciare il negozio per ritornare a dedicarsi totalmente alla sua arte. Davanti a lui ha di nuovo un foglio bianco da riempire. Sa che riuscirà a battere quell’invincibile candore. Perché ogni mossa è un tentativo,un tentativo che non sai se fallirà ma nel momento in cui deturpi quel bianco hai già vinto. Una sfida è quella che mi sono posta io scrivendo quest’articolo. Una sfida è quella che si pone ora Paolo dipingendo.