“Ciao, come stai?”
“Bene, dove sei?”
“A casa, dove vuoi che sia?”.
Le mie conversazioni con Valeria cominciano quasi sempre così. E chissà quanti in questi giorni dicono ai propri fratelli le stesse parole per dare il via a una chiamata o a una chat, per spezzare un po’ la tensione. Valeria è psicologa psicoterapeuta e lavora in un Servizio di Salute Mentale della Asl di Teramo. Un centro in cui si recano persone con patologie psichiatriche. In questi giorni, anche il suo lavoro è rallentato, perché i pazienti stanno più a casa. Così oggi le rubo qualche minuto per parlare. Ho appuntato un paio di domande su questa condizione in cui ci troviamo, che ci fa paura, ci mette ansia, preoccupazione, incertezza. Tantissime cose, tra cui magari insieme riusciamo a fare un po’ di chiarezza.
Partiamo dalla sera del 9 marzo, quando in 60 milioni abbiamo ascoltato una voce dirci che le nostre vite stanno per cambiare. “In quel momento si è prodotto in modo evidente un trauma collettivo, perché riguarda tutti, in modo indistinto dalla provenienza, dall’età e dal ceto sociale. Una rottura che per alcuni assume una dimensione di ferita oggettiva, perché si accompagna alla perdita del lavoro, dei cari, della salute. Per altri, un trauma psicologico, che si tramuta in un distanziamento sociale e in una rottura dei legami”.
Prima di quel 9 marzo per giorni si rincorrono notizie diverse su questo Virus. Uccide, no non uccide. Arriva, no rimane in Cina. Non prende i giovani, sì anche i bambini. Un grande caos di comunicazioni che ci incalzano in modo sempre più insistente. “Proprio da qui – dice lei – nasce un sentimento di spaesamento e di confusione che esplode nel momento del lockdown. Abitudini che cambiano, routine che salta, incertezza rispetto al futuro, mancanza di controllo. Un senso di disorientamento che è acuito dalla percezione che tutto ciò ci viene imposto, non è stato scelto. Ci ritroviamo in una forte ambiguità, una dissonanza cognitiva per cui ci viene richiesto da un lato di distanziarci per salvaguardare noi stessi, dall’altra di fare qualcosa per tutelarle gli altri.”
E poi si apre la strada per un nuovo attore: “La paura, un sentimento che di per sé non è negativo, ma necessario. Una reazione primitiva che ci protegge dal pericolo. Ma che in questi casi assume derive incontrollate e distruttive, come l’angoscia, l’ipocondria, l’aggressività. Un esempio è la ricerca maniacale del portatore del virus. Prima il cinese, poi il lombardo, poi il cane, poi la persona che vive con me, poi io, perché il virus potrei averlo e non lo so. Il virus è inanimato, non posso vederlo e toccarlo, si muove silenziosamente tra di noi. Alla mancanza di controllo si risponde con la necessità di trovare qualcosa al di fuori contro cui scagliare i propri sentimenti negativi. Come a dire: se il nemico è lui, mi sento più tranquillo” Mentre parla penso a tutti quelli che tirano secchiate contro i runner o a quelli che cercano il complotto. “Dalla paura può nascere il panico. Lo ritroviamo nello sconvolgimento di alcune abitudini primarie, nell’insonnia, nella mancanza di appetito, nella presenza intrusiva di certi pensieri, come nella necessità compulsiva di informazioni e dati, che non siamo neanche in grado di analizzare”.
Insomma rimpinzarsi di informazioni non è una buona strategia, perché a quanto capisco serve un meccanismo protettivo. Meglio informarsi due o tre volte al giorno e solo da fonti autorevoli. Poi basta, tutto il resto è superfluo. Aggiungo io: non serve nemmeno essere noi stessi latori di informazioni, condividere, ripubblicare, ripetere, amplificare. Non dobbiamo contagiare gli altri con le informazioni di cui siamo entrati in possesso. Ognuno di noi ha il diritto (e il dovere) di informarsi con i suoi tempi.
Fin qui il quadro mi pare chiaro, ma poco incoraggiante. Il rischio di rimanere schiacciati dalla mole di sentimenti che questo stato produce mi sembra molto alto. “Qui si mettono alla prova le risorse individuali, che sono determinate da tanti fattori, dalla propria storia personale. Il primo strumento che abbiamo è vivere questo tempo in modo proattivo. Stare tutto il giorno in pigiama non ci aiuterà, ci aiuta invece creare una routine e curare l’ambiente in cui siamo. Non ci aiuterà nemmeno perdere contatto col tempo, non sapere che giorno e che ora è. Non ci aiuterà non lavarci e vivere sul divano.” Su questo punto mi blocco: quando siamo in vacanza ci scordiamo i giorni e le ore, e stiamo una favola, ci sentiamo liberi. “Sì, ma solo perché prendiamo una pausa da una routine che sentiamo oppressiva, ma che ci serve anche come misura del tempo. Introdurre gesti ripetitivi offre un senso di sicurezza. In vacanza c’è un orizzonte di tempo definito, un inizio e una fine. Ma ora non abbiamo un limite cronologico. Anche questo ci fa annaspare nell’irrequietezza. Del resto, uno dei connotati dei pazienti psichiatrici è proprio questo: dimenticano il proprio aspetto, l’igiene, il tempo”.
Di certo la risorsa più importante al momento consiste nel mantenere una socialità. La tecnologia ce lo consente. “Il terremoto de L’Aquila del 2009 fu un fatto traumatico ed egualmente collettivo. Entrambi sono eventi quasi sovrannaturali. Le persone coinvolte reagirono cercandosi tra di loro, erano solidali, giocavano a carte nelle tende, mangiavano tra sconosciuti. E’ una reazione normale, che in questo caso ci è negata: cercare un contatto. Possiamo però servirci della tecnologia come di un’opportunità, perché condividere ci può aiutare ad elaborare”.
In una chat di qualche giorno fa mi diceva che fra poco ci sarà sempre più bisogno del suo lavoro. Noi tutti ce lo siamo augurati, non tanto per lei, ma perché è necessario che la cura della salute, sia fisica che mentale, sia rimessa al centro della nostra vita. “I risultati di comportamenti dannosi in questo momento si vedranno nei prossimi mesi, tramutandosi in richieste d’intervento. Nel frattempo il nostro lavoro, come quello di molti, è stato stravolto. Le terapie online, sia di gruppo che individuali, si sono diffuse massicciamente. In questo modo perdiamo sicuramente molti dati: tutti quelli riferiti al comportamento non verbale, come l’intonazione, la postura, la distanza. Ma almeno ci siamo”.
Mentre parliamo a casa sua comincia a nevicare. Alla fine di Marzo la neve sembra una cosa assurda, la colonna sonora di un’emergenza mondiale.
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