Pietro è un giovanissimo concertista romano che suona la fisarmonica classica, strumento affascinante e nuovo nel panorama mondiale, da 17 anni.
Nuovo perché Pietro è uno dei pochi fisarmonicisti al mondo che suona musica classica con questo strumento. Lo abbiamo voluto intervistare prima del suo tour mondiale, che prevede tappe addirittura in Australia e Sud Africa.
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Come è nata la passione per la fisarmonica e perché hai scelto di rivoluzionarla suonando anche musica classica?
Da piccolissimo andavo con i miei genitori ai loro corsi di ballo liscio, quindi la fisarmonica si sentiva sempre. Quel suono si è sedimentato allora.
La decisione di suonare musica classica non è stata presa con premeditazione, perché, in Italia, la fisarmonica si studia come uno strumento popolare. Mi ci sono trovato per caso, notando, ad esempio, in un concorso, che altri fisarmonicisti hanno uno strumento diverso e suonano un repertorio diverso dal mio; allora ho scoperto che la fisamonica viene studiata anche in Conservatorio!
Portare uno strumento considerato “popolare” in un ambiente di musica colta comporta un grande lavoro: come è stato il tuo percorso?
Quando sono arrivato in Conservatorio ho notato che non c’era una grande attività attorno alla fisarmonica. Dopo un anno di studio, alla fine del 2012, mi sono buttato a capofitto in diverse collaborazioni. Andavo a trovare professori di pianoforte per farmi sentir suonare la fisarmonica.
L’effetto era ed è di sorpresa, quando si dimostra che Bach o Scarlatti alla fisarmonica funzionano. E magari si dà anche un contributo ulteriore rispetto al risultato per cui erano state pensate quelle opere.
Il tuo strumento è novità: cosa senti nel pubblico durante le tue esibizioni? E, visto che hai suonato in così tanti e diversi paesi, che differenze hai notato?
Durante il concerto sento e vedo la gente rapita dal repertorio, dalla fisarmonica come strumento in sé, dal virtuosismo che fa sempre gola.
Il momento che mi dà i brividi, però, è quel brevissimo attimo di silenzio assoluto che c’è tra la fine di un pezzo e l’applauso. In quel momento penso a come ho suonato, come il pubblico abbia recepito il pezzo, come sarà l’applauso.
Le differenze tra i pubblici dei vari paesi sono poche; possono esserci differenze di approccio al concerto, ma i miei concerti sono una specie di casa: la musica che suono diventa la mia casa. Io suono musica che ho studiato nella mia camera e riproduco quell’ambiente. Quest’anno andrò in Sud Africa: non so cosa succederà lì, so solo che ricreerò quella casa e che funzionerà.
Hai mai pensato di registrare un disco?
Tante volte, soprattutto nell’ultimo anno. Ho intenzione di incidere Scarlatti, autore barocco che a me piace tantissimo e che con delle piccole miniature esplora una gamma di colori musicali, ma anche di emozioni, che sono molto affini con la mia personalità.
Che progetti hai a lungo termine? Insomma, qual è il sogno nel cassetto di Pietro Roffi?
Ho lavorato tanto e sarà un anno ricco di concerti di grande portata. Per me è una rivincita verso tutti quelli che credono che questo strumento non possa fare strada e verso i fisarmonicisti che non sono stati intraprendenti per paura o per mancanza di idee. Penso che il passo successivo che permette di dare alla fisarmonica quello che merita è l’inserimento di un fisarmonicista all’interno di un’etichetta discografica di importanza mondiale. Questo porterebbe la fisarmonica ad un pubblico più vasto e la svolta è dietro l’angolo.
The WalkMan si propone di mettere in luce giovani talenti nel contesto italiano: cosa consigli a chi decide di fare della musica un mestiere?
La risposta è proprio nella domanda: fare musica come mestiere. Se vuoi mettere al centro della tua vita questo, troverai il modo per farlo. Inoltre, un grande interprete è chi suonando si espone, fa delle scelte e rintraccia nello spartito la sua idea di musica.
Mi accanisco contro chi dice che si debba suonare sempre, anche quando non ci va. I doveri del mestiere ci sono, ma la musica è libertà.
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