Quanto hanno influito le scoperte archeologiche nel processo di definizione dell’identità umana?
Iper. Forse il nostro è un mondo racchiuso nel puro concetto di superlativo. A questo convulso disordine ben strutturato nulla, assolutamente nulla, può più sottrarsi. Piuttosto viene implicato nell’ineludibile movimento in costante accelerazione. Di fronte al non celato imperativo di iper-informazione, da un lato siamo pervasi dalla nostalgia di un Altro indistinto, dall’altro ci risulta quasi impossibile immaginare un mondo sconosciuto la cui immagine sia ancora mutabile attraverso l’esplorazione.
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L’apporto dell’archeologia ha avuto un’importanza cruciale per la comprensione della Storia e attraverso i ritrovamenti -soprattutto attraverso alcuni- ci ha imposto una drastica ritrattazione di quanto prima era dato per scontato.
La Rift Valley e la Gola di Olduvai
È difficile pensarvi senza essere percossi da una febbrile irrequietezza. Tutto ebbe inizio qui: sembra quasi l’incipit di qualche testo sacro, eppure è proprio in questo luogo che cominciò il lungo processo di ominazione. La Rift Valley, la “culla dell’umanità“, o anche “Great Rift Valley Systeme“, è una vasta formazione geologica che si estende per 6000 km, dalla Siria al Mozambico, e si è formata a seguito della tettonica a placche che ha prodotto in 15 milioni di anni circa la separazione dell’Africa orientale col resto del continente. Non è casuale la grandissima quantità di ritrovamenti paleoantropologici in questa zona: l’attività vulcanica e tettonica che ha originato questo complesso di depressioni e al contempo la sedimentazione hanno creato condizioni ideali per la proliferazione della vita. La gola di Olduvai è un avvallamento collegato alla Rift Valley di non minore interesse archeologico. Il sito fu scoperto per caso a inizi Novecento da Louis e Mary Leaky, che condussero qui ricerche per molti anni e rinvennero importanti reperti come l’Australopithecus boisei e le famose “orme di Laetoli” (impronte fossilizzate di ominidi risalenti a circa 3 milioni e mezzo di anni fa).
Lucy
Non è l’antenato più antico che conosciamo, ma è senz’altro il più famoso e il più suggestivo: di Lucy non ci restano pochi frammenti ma resti sufficienti alla ricostruzione del 40% del suo apparato scheletrico. La sua scoperta risale al 1974 durante degli scavi nella regione di Afar (Etiopia) ad opera dell’americano Donald Johanson, che decise di mutuarne il nome dalla nota canzone “Lucy in the sky with diamonds“. In Etiopia il reperto è anche chiamato Dinkinesh, che in lingua Amharic significa “sei meraviglioso“. Altezza di 1,10 metri e peso di 29 kg circa, Lucy ha un cranio piccolo paragonabile a quello degli attuali scimpanzé, mentre il bacino e le gambe sono più sviluppati e già simili a quelle dell’uomo moderno. Inizialmente scambiata per un esemplare giovane, venne poi identificata come esemplare femminile di Australopithecus afarensis che visse in Africa intorno ai 3,2 milioni di anni fa.
Le grotte di Altamira
Sebbene fossero conosciute già da tempo dalla popolazione locale, soltanto nel 1879 l’appassionato proprietario Marcelino Sanz de Sautuola le esplorò con adeguata attenzione e rinvenne delle pitture rupestri risalenti al Paleolitico superiore. Le grotte di Altamira sono anche soprannominate “La Cappella Sistina dell’arte paleolitica” per la bellezza e la vivacità dei loro colori, che vennero preservati dall’aria esterna grazie a una frana che impedì per molto l’accesso. Difatti i dipinti erano così ben conservati che Sautuola venne accusato di falso e morì senza alcun riconoscimento. Il loro soggetto principale è il bisonte, animale fondamentale nella vita del Paleolitico, fonte primaria per il sostentamento, per la produzione di pellicce e di diversi utensili. La loro realizzazione non è avvenuta in un’unica sessione, ma è stata l’esito estremo di una stratificazione di almeno 20.000 anni: centinaia di generazioni hanno contribuito a queste straordinarie pitture, la cui bellezza è apprezzabile anche dal gusto moderno. Il più recente dei disegni risale a 11.000 anni fa, e molti studiosi ne hanno individuato alcuni che potrebbero risalire addirittura a 25.000-35.000 anni fa.
La stele di Rosetta
Questa spessa lastra di granite nera (174 x 72 cm) ha rappresentato un reperto decisivo per l’interpretazione dei geroglifici egizi. Fu rinvenuta a El Rashid (Rosetta), un piccolo villaggio sul Nilo, durante la spedizione napoleonica in Egitto dell 1799. Su di essa è incisa una dedica al faraone Tolomeo V Epifore ( Tolomeo, Colui che vive in eterno, l’Amato di Ptha, molto bene egli ha fatto ai Templi ed ai loro abitatori ed a tutti i sudditi suoi, poiché è un Dio, Figlio di un Dio e una Dea, come Horo, Figlio di Osiride, che ha protetto suo Padre“) in tre diversi caratteri: geroglifico (la prima scrittura usata in Egitto), demotico e greco (lingua parlata dalla dinastia regnante) ma la sua decifrazione richiese oltre 30 anni. Il linguista Francois Champollion riuscì con geniale intuito a decodificare i segni partendo dalla sola certezza di trovarsi di fronte a un unico testo in tre lingue diverse. L’elemento-chiave che gli consentì la lettura fu la comprensione del valore non soltanto lessicale ma anche fonetico dei geroglifici. L’errata convinzione di una scrittura egizia esclusivamente ideografica aveva infatti portato a traduzioni ben poco plausibili. Champollion percepì che ciascun geroglifico poteva corrispondere non soltanto a un ideogramma ma anche a un diacritico e attraverso la sua impresa epocale pose le basi per la moderna egittologia.
La tomba di Tutankhamon
“Fra il profondo silenzio, la pesante lastra si sollevò. La luce brillò nel sarcofago. Ci sfuggì dalle labbra un grido di meraviglia, tanto splendida era la vista che si presentò ai nostri occhi: l’effige d’oro del re fanciullo.” Così l’archeologo Howard Carter commenta il sensazionale rinvenimento del 1922 della tomba di Tutankhamon, dopo sei anni di tenace ricerca. La tomba ha delle dimensioni piuttosto ridotte rispetto alla sua importanza: risulta essere la più piccola tra quelle della Valle dei Re. Si ipotizza che all’inizio fosse destinata a qualcun’altro, e che venne utilizzata per il giovane re in seguito alla sua morte inaspettata. Tutankhamon, morto all’età di 18 anni, è rimasto pressoché sconosciuto prima del 1922 e la posizione della sua tomba si era perduta da tempo. L’importanza della scoperta, la più famosa dell’egittologia e una delle più rilevanti dell’archeologia mondiale, risiede nel fatto che si tratta di una delle poche sepolture dell’antico Egitto pervenutaci quasi intatta e soprattutto l’unica di un sovrano, dunque di straordinaria ricchezza: la sola anticamera conteneva circa settecento pezzi e alcune casse richiesero, da sole, intere settimane per essere svuotate da oggetti preziosi, armi e vesti.
Troia
Le storie connesse alla vicenda di Troia hanno esercitato un’influenza fondamentale su tutta la storia della civiltà e i poemi omerici costituiscono tuttora le radici della cultura occidentale. Per secoli Troia non è stata che una leggenda prima di Heinrich Schliemann. L’appassionato imprenditore investì tutte le proprie ricchezze per inseguire il sogno di ritrovare Ilio e , basandosi soltanto sulle descrizioni omeriche, condusse degli scavi sulla collina di Hissarlick (Turchia). Nel 1871 rinvenne il cosiddetto “tesoro di Priamo” e non uno ma ben nove strati corrispondenti ad altrettante città di epoche diverse. L’impresa di Schliemann è stata senz’altro importante ma condotta senza una metodologia scientifica, pertanto molti elementi preziosi per la ricostruzione storica sono andati irrimediabilmente perduti. Ciò che hanno accertato le operazioni successive è che il sito è stato abitato pressoché senza interruzioni sin dal 3200 a.C., forse per le sue caratteristiche estremamente strategiche. Ma ancora si discute sulla possibile identificazione di uno strato, quale che sia, con la Troia iliadica, il cui riconoscimento di una storicità non è tuttora sostenuto da ritrovamenti archeologici inconfutabili.
Shi Cheng, la città sommersa
Fiumi di inchiostro hanno parlato di Atlantide, il continente perduto, e soltanto mezzo secolo fa le fantasie di tanti letterati si sono realizzate. Ai piedi del monte Wu Shi, o Montagna dei Cinque Leoni, sorgeva la florida Shi Cheng, la Città Leone, fondata circa 1300 anni fa ed importante centro politico, economico e culturale. È esistita per secoli finché nel 1959 il governo cinese decretò la necessità di una nuova centrale idroelettrica per fornire l’energia alla città di Hangzhou. La valle venne allagata per creare il lago artificiale Qiandao: Shi Cheng, così come altre città e villaggi, venne sommersa e dimenticata. Da circa dieci anni gli archeologi stanno compiendo ricerche subacquee per conoscere approfonditamente questo sito così affascinante e soprattutto per provvedere alla sua adeguata conservazione.
L’esercito di terracotta di Qin Shi Huang
Restando in area asiatica, nel 1974 l’archeologo Yuan Zhongyi rinvenne uno dei reperti più curiosi dell’ultimo cinquantennio. A partire da informazioni ricevute da un contadino, avviò un lungo lavoro di ricerca che riportò alla luce il cosiddetto esercito di terracotta di Qin Shi Huang. Oltre 8000 statue (perlopiù guerrieri) sorvegliano da quasi 2000 anni le spoglie del giovane imperatore che, ossessionato dalla paura della morte, appena tredicenne commissionò nel 246 a.C. la costruzione di un enorme mausoleo rifornito di tutto ciò che gli sarebbe servito nell’aldilà. La definizione di “mausoleo”, tuttavia, appare riduttiva. Nel 2002 si è potuta tracciare una pur approssimativa mappa della vera e propria città sotterranea estesa per 100 km² a forma di drago, replica dell’impero sul quale Shi Huang aveva governato. Non si è giunti a un’interpretazione concorde sulla funzione di queste statue. Alcuni ritengono che rappresentassero le vera guardia imperiale, altri le identificano come mingqi, modellini che evitavano sacrifici umani in occasione della morte dell’imperatore.
Il codice di Hammurabi
“Occhio per occhio, dente per dente“. La formula più famosa della legislazione antica è codificata proprio in questo reperto. Il valore storico di questa stele di basalto nero, risiede non soltanto nell’essere una delle prime raccolte organiche di leggi (che pure venivano espresse e tramandate nell’oralità) ma nella sua dimensione scritta. Seppure rudimentale e tutt’altro che equilibrato, il codice di Hammurabi rappresenta il primo inconfondibile riconoscimento dell’esistenza di un diritto e di una sua piena ragione di essere. Le 282 leggi (basate sul sostanziale principio di legge del taglione) del re Hammurabi di Babilonia sono scolpite in caratteri cuneiformi su una lastra sulla cui sommità è raffigurato il sovrano in piedi, in atteggiamento di venerazione di fronte a Shamash, dio della giustizia seduto sul trono. Il documento venne rinvenuto nella città di Susa (oggi Shush, in Khūzestān) dall’archeologo francese Jacques de Morgan nell’inverno 1901-1902.
Le teste di Rapa Nui, l’Isola di Pasqua
Moltissimi interrogativi sono sorti attorno a questi reperti, che hanno prodotto peraltro interpretazioni a dir poco fantasiose. I moai sono le gigantesche statue dell’Isola di Pasqua, colonizzata dai polinesiani 3000 anni fa, rimasta intatta fino all’arrivo degli spagnoli nel ‘700. Come venivano realizzati? Qual era il loro significato? Come poteva il popolo di Rapa Nui trasportarli con i propri mezzi? Sono infatti alti da 2,5 metri fino a 10 metri (ne esiste uno, peraltro incompleto, di 21 metri) e hanno un peso che può variare dalle 75 alle 86 tonnellate. Ci si è sempre riferiti ad essi come a delle imponenti teste, ma recenti scavi hanno portato alla luce un corpo sotto di esse. Sul dorso delle statue sono incisi simboli in rongorongo, che probabilmente indicavano l’identità dell’artista. In particolare ricorre la ‘falce’ detta Vaka, che potrebbe rappresentare una canoa. Si crede che la funzione dei Moai non fosse religiosa, ma apotropaica per i pescatori – dato che sono rivolti verso il mare – anche se secondo altre ipotesi consentivano di mettere in contatto i vivi con il mondo dei morti.