Intervista a Flavio Solo a cura di Sofia Fattori, inserita nella mostra Riscatti di Città presso Palazzo Merulana.
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Come definiresti la tua pratica artistica? Come dialoga con il territorio?
Ho iniziato al liceo facendo dei graffiti, di cui mi piaceva l’aspetto notturno, l’uso di un nickname e il fatto di lasciare qualcosa di mio. All’epoca però non ero soddisfatto del lettering, perchè mi rendevo conto che c’erano artisti migliori di me.
Durante gli anni dell’Accademia ho iniziato a dipingere su tela ed ero soddisfatto dei soggetti che riuscivo a rappresentare. Mi resi conto però che mi mancavano gli aspetti legati al graffitismo, tra cui l’assenza del nickname e il fatto di imporre qualcosa di mio sulle strade.
Terminata l’Accademia sono finalmente riuscito a coniugare i due mondi. Come me, molti altri artisti della mia generazione hanno raggiunto la stessa consapevolezza ed è così che intorno agli anni ‘90 si è diffusa la street art come la conosciamo oggi.
Quello che rappresento non è stato scelto a tavolino ma è il frutto di un lungo processo. Sin da piccolo sono stato attratto dai fumetti, che oltre all’intrattenimento mi hanno anche trasmesso grandi contenuti morali.
Quando raffiguro questi soggetti cerco di usare un alfabeto universale e trasversale, che sia facilmente decifrabile e allo stesso tempo comprensibile indipendentemente dal livello di età. Ad esempio, mentre dipingevo Wonder Woman a New York incontrai una signora anziana che, a mio stupore, era ben informata sull’eroina. Questo perché in America i Supereroi vengono rappresentati come dei Santi, portatori di valori, mentre in Italia sarebbe stato impossibile. Perciò si tratta di un alfabeto universale che comunque va contestualizzato caso per caso.
A mio parere ci sono due modi per approcciarsi al contesto urbano in cui si opera. Il primo è quello di mantenere sempre la stessa tematica senza tenere conto del contesto; il secondo è di adattarsi e contestualizzare quello che si fa in base al contesto e quindi fare qualcosa di inerente al territorio.
Io mi sento più vicino al secondo approccio, in quanto è importante tener conto di quello che pensano gli abitanti. Giocano un ruolo centrale, in quanto se apprezzano quello che fai si impegnano per prendersene cura e per salvaguardarlo.
Io, come artista, cerco sempre di tener conto del contesto dell’opera che sto per realizzare e anziché imporre qualcosa di decontestualizzato, nel mio stile cerco di trovare un punto di contatto.
Che rapporto si crea tra l’arte urbana e la rigenerazione?
A mio avviso è semplicistico conferire un ruolo risolutivo alla street art. Accade spesso che i media e i politici abusino del termine “riqualificazione”. Dipingere un muro infatti non provoca grandi cambiamenti nell’immediato. Il problema principale sono le periferie: ci è capitato di parlare con cittadini che non percepiscono il valore che viene conferito a quartiere da un’opera di street art, accusandoci di sprecare tempo e denaro in quello che facciamo.
Secondo me la riqualificazione urbana non dovrebbe partire solo dalla street art. Questa dovrebbe essere un incipit, un punto di inizio per implementare processi di riqualificazione urbana che mirano a risolvere i problemi affrontati quotidianamente dai cittadini. Da una parte, l’amministrazione comunale dovrebbe migliorare le situazioni di disagio; dall’altra i cittadini dovrebbero prendersi cura attivamente del proprio quartiere. Questi due aspetti della rigenerazione urbana vanno di pari passo.
Io, ad esempio, sono nato al Trullo. Fin dagli anni ‘70, gli abitanti del Trullo nascondevano la loro provenienza. Nel 2014 c’è stato un festival di street art autofinanziato. Io insieme ai Poeti del Trullo e Poesie Pop Corn abbiamo totalmente stravolto il quartiere, in quanto i nostri interventi hanno attirato i turisti e provocato una “inversione”: chi non era del Trullo sosteneva che abitasse lì.
Se poi andiamo ad analizzare, non si è verificata una vera e propria rigenerazione, gli autobus non passano comunque, le buche rimangono, ma è cambiata la mentalità di chi abita il quartiere, si crea un sentimento popolare che è un incipit che ti incoraggia a prenderti cura del tuo quartiere, rivendicando il tuo luogo di appartenenza.
Anche dal punto di vista dell’amministrazione si è avvertito un cambiamento, com’è accaduto per esempio a Primavalle anni fa.
Dipinsi un muro per un festival autofinanziato dal quartiere, una volta terminato il disegno, hanno iniziato a circolare le foto del muro coperto dall’erba alta. Due giorni dopo è intervenuta l’AMA andando a rimuovere l’erba.
In parte è stato anche merito dei social, rivelandosi un grande contributo di diffusione per la street a art a livello globale, e più c’è diffusione e più si intensifica l’intervento da parte delle istituzioni, riconoscendo il fenomeno virale della street art.
Perciò posso concludere dicendo che la street Art non riqualifica e non risana i grandi problemi, ma nel pratico può essere un punto di partenza. La rigenerazione deve essere prima di tutto culturale.
Come si pone Roma nello scenario contemporaneo della street art?
Una volta che questo fenomeno si è diffuso sia a livello di social che di muri, ormai tutti sono venuti a conoscenza della Street Art, di conseguenza si sono create più possibilità di lavoro. E quindi si è verificato un cambiamento radicale.
A Roma si sono insediate molte realtà di street art, e vanta molti artisti e festival ,nulla da invidiare al resto delle città europee.
Che prospettive vedi per questo ambito? Come si evolverà la street art e la riqualificazione degli spazi?Questo movimento ha raggiunto un enorme risultato dal punto di vista di interesse e attenzioni popolari.
Da qui in avanti mi auguro che la street art venga inclusa nel mercato del collezionismo e delle gallerie, allineandosi all’arte classica. Sono convinto che sarà così perchè andrà imponendosi sempre più, anche all’interno degli spazi urbani.
In copertina: Mom and Dad – Solo – 2016 – Via del Pigneto
Foto di Simone Galli
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