SUMs è uno studio di Architettura Made in Italy con un approccio progettuale interdisciplinare vòlto a Sostenibilità, Universal Design ed Architettura Parametrica. Un crossover efficace.
In una contemporaneità che non può più prescindere da una rinnovata attenzione per la persona e l’ambiente, SUMs integra una visione consapevole alla potenzialità della progettazione parametrica.
Con questo atteggiamento, SUMs supera il concetto di progettazione a compartimenti stagni, proponendo un’Architettura sostenibile, accessibile ed inclusiva.
Colpiti dalla filosofia di integrazione di questo giovane studio di Architettura italiano, abbiamo avuto occasione di scoprire meglio la realtà di SUMs.
Parlateci di voi: da dove nasce l’esigenza di dar vita a SUMs e cosa significa per voi porre la sostenibilità al centro della vostra ricerca?
SUMs nasce dall’amicizia e stima reciproca fra gli architetti Giulia Pentella, Fabrizio Mezzalana e Fabrizio Bonatti appassionati rispettivamente di Sostenibilità, Universal Design e Modellazione parametrica.
Un giorno, chiacchierando in riva al mare, ci siamo resi conto che condividevamo lo stesso senso di responsabilità verso la società e l’ambiente (i valori) e che tutti noi per progettare partivamo dai dati, che fossero climatici, antropometrici o geometrici (il metodo).
Da quel momento fu chiaro che la matematica potesse essere lo strumento tramite il quale unire la tematica ambientale con quella sociale per parlare finalmente di sostenibilità, quella vera, ossia quella che mira a stili di vita eco-compatibili e inclusivi per tutti.
Del resto i numeri lo confermano. Affrontare le due componenti separatamente non ha portato grandi risultati: ancora oggi infatti il 32% dell’energia prodotta a livello mondiale è consumata dal settore dell’edilizia residenziale e commerciale (fonte: IPCC 2018 e IEA 2013) e in Europa tre persone con disabilità su cinque circa (60,9% del totale) hanno limiti alla partecipazione alle attività ricreative, hobby o attività che implicano trascorrere del tempo con altre persone, a causa delle barriere sociali ed architettoniche che, ad esempio, impediscono l’accesso o la fruizione di teatri, cinema, auditorium, biblioteche, strutture sportive, ecc. (fonte: Eurostat 2015).
Far sì che il progetto riduca le emissioni di CO2 e integri soluzioni per facilitare le attività di tutte le persone è per noi l’obiettivo primario.
Sostenibilità significa qualità di vita e quindi poter vivere in spazi accoglienti, a misura di bambini, adulti, disabili e anziani e in armonia con la natura.
Che valore aggiunto ha integrare lo studio ambientale all’interno di una giovane realtà progettuale? In un periodo storico come questo, perché praticare questo percorso è ancora un’eccezione in Italia?
Decarbonizzare le attività umane, e fra queste quella edilizia, non dovrebbe essere più un risultato raggiungibile per metà o ancora peggio tramite un approccio volontario. Eppure studi di progettazione e committenti che prendano sul serio questa tematica non sono molti.
Sapete dove abbiamo riscontrato una sensibilità maggiore? In Palestina. Là dove le reti fognarie e l’elettricità sono pressoché assenti, l’unico modo per offrire i servizi è progettare con le risorse locali: pioggia, vento, sole, terra.
E così la dimensione del tetto, ad esempio, non deriva più solo da questioni estetiche o da vincoli urbanistici ma dal calcolo della quantità di acqua piovana che devo raccogliere per far funzionare i wc della scuola.
L’approccio si inverte: la sostenibilità diventa mezzo per offrire sicurezza e comfort e non più un’etichetta da applicare a progetto fatto.
Quando si opera in questi contesti diventa palese il vero compito dell’architetto ambientale, ovvero quello di provare tutte le strade che la forma, i materiali e le strategie cosiddette passive offrono per far funzionare l’edificio prima ancora di ragionare sull’integrazione impiantistica.
La tecnologia si ridimensiona, pur rimanendo essenziale per assicurare adeguate condizioni di comfort, e così anche l’impatto ambientale.
Dal punto di vista normativo sembrerebbe tutto funzionare bene: oggi nessun appalto pubblico può prescindere dal richiedere misure concrete sui Criteri Ambientali Minimi mentre accorgimenti per l’accessibilità sono presenti da molti decenni nei regolamenti nazionali. Ma evidentemente non basta.
Qui si tratta di tornare ad avere una coscienza del limite, di mettere in campo le strategie per la mitigazione e l’adattamento al clima che cambia e avere il coraggio e la serietà professionale di monitorarne i risultati.
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Cosa significa integrare sostenibilità e design parametrico? Quali sono i vantaggi di questo connubio e quali le criticità?
Significa partire dai parametri climatici per poi arrivare alla forma. Innanzitutto si analizzano le risorse locali quindi si identificano le migliori strategie progettuali per quel dato contesto. Dopodiché si elaborano proposte alternative e le si ottimizzano in base agli obiettivi ambientali.
Il caso del progetto di Expo-Cascina Merlata è emblematico. Il masterplan prevedeva delle torri a pianta quadrata. Questa forma imponeva un layout interno con il 50% degli appartamenti rivolti a sud e la restante quota a nord. Trattandosi di residenze, in cui evidentemente il benessere interno gioca un ruolo di primo piano, ci sembrava opportuno garantire a tutti almeno due ore di sole in inverno.
Per questo abbiamo costruito un algoritmo generativo per la modifica automatica della forma. La prima soluzione prevedeva la rotazione di ogni piano con un angolo minimo e massimo dato, mentre la seconda soluzione, più facile da realizzare, prevedeva la deframmentazione del parallelepipedo in N torri ad altezza variabile (con volume totale costante).
Oggi a Milano si può vedere il risultato in cui siamo riusciti ad aumentare il numero di appartamenti con doppio affaccio (e così anche il valore dell’immobile stesso).
Gli algoritmi matematici ci aiutano anche ad ottimizzare i processi. Numerosi crediti del protocollo LEED richiedono calcoli e verifiche geometriche. Quest’attività va ripetuta ogni qual volta il progetto architettonico subisce delle modifiche nel corso della sua elaborazione.
L’aver investito tempo e risorse nell’automazione di alcune operazioni ci permette oggi di andare più spediti e di ottenere risposte rapide per modificare il design a beneficio dei risultati ambientali.
Ora veniamo alle criticità: innanzitutto se da una parte le analisi vengono facilitate e velocizzate, dall’altra servono conoscenze informatiche e matematiche e, se si tratta della prima volta in cui si effettuano alcune operazioni, serve tempo per personalizzare i codici e rendere interoperabili i software specialistici.
Il confronto continuo con chi come noi segue questo approccio è fondamentale. Si cresce insieme per migliorare le competenze dei singoli.
Inoltre non basta creare un algoritmo ed inserire al suo interno i dati per ottenere automaticamente la forma perfetta: le variabili da considerare sono sempre molteplici ed anche le soluzioni possibili sono numerose.
Anche in natura, infatti, la forma che risponde meglio ad un dato criterio ambientale è complessa e non banale.
A capo del progettista (e non certo all’algoritmo) rimane quindi la responsabilità di capire come calibrare i pesi delle diverse esigenze e ponderare i risultati.
In altre parole bisogna avere la capacità di mediare fra aspetti di fattibilità tecnica, ottimizzazioni strutturali, controllo dei costi, inserimento nel contesto, cercando bellezza e qualità degli spazi.
Usiamo il termine bellezza non a caso perché molti non trovano assonanti matematica e bellezza.
Questo è falso e si capisce bene andando a vedere i modelli di gesso degli stadi costruiti da Luigi Moretti e Bruno de Finetti, le strutture di Pierluigi Nervi o gli infiniti esempi di collegamento tra architettura e matematica nella nostra storia dell’arte.
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Quando un design può essere considerato universale?
Il design è universale quando mia nonna riesce a fare la spesa da sola o quando porto mio figlio per strada col passeggino o ancora quando il nostro amico su sedia a rotelle riesce a prenotare il nostro stesso albergo.
Il design è quindi universale quando gli spazi o i prodotti progettati e poi creati possono essere utilizzati dal maggior numero di persone possibile, a prescindere dalle loro diversità fisiche.
Tutte le esperienze che facciamo quando attraversiamo uno spazio, entriamo in un edificio o usiamo un prodotto, passano attraverso il nostro corpo che interagisce fisicamente con ciò che ci circonda. Questa interazione può essere positiva e piacevole oppure negativa e fonte di disagio ed esclusione. Il progetto universale ha l’obiettivo di includere tutte le persone in un’interazione positiva.
La progettazione basata sullo “standard” crea un cortocircuito quando spazi e prodotti sono usati da persone con disabilità o da persone che faticano a rientrare nei canoni dello standard considerato: da qui si crea esclusione, disagio e discriminazione e la necessità di abbattere barriere architettoniche create (per tutte queste persone) proprio dal progetto.
Il design universale è quindi il progetto che riscopre la centralità del corpo e ne considera tutte le sue possibili diversità per garantire a tutti un’interazione con lo spazio o l’edificio positiva, piacevole, inclusiva e che fa star bene le persone.
Oggi uno studio di architettura non può essere solo uno studio di architettura. SUMs offre una panoramica che va oltre il disegno. Parlateci della vostra scelta operativa.
È vero. La definizione classica di studio di architettura ci va stretta. Lo si intuisce dalle attività portate avanti fino ad ora. Queste spaziano da incarichi di consulenza per garantire l’accessibilità delle scuole nel campo profughi di Shuafat a Gerusalemme a incarichi di progettazione del primo Parco della Resilienza di Bologna, passando per attività di formazione e co-progettazione con i ragazzi e le realtà del Terzo Settore del quartiere.
Il filo conduttore della nostra progettazione è l’aderenza ai principi che riconosciamo come imprescindibili e che ci guidano nelle diverse attività dello studio.
L’ascolto ed il dialogo con gli interessati, l’obiettivo di minimizzare i consumi e massimizzare il benessere e la qualità della vita, la valorizzazione delle diversità umane ed ambientali sono i concetti di riferimento che rimangono costanti pur variando il contesto.
Non sempre è possibile valorizzare nei contratti tutte e tre le componenti di SUMs (Sustainability, Universal Design e Modellazione parametrica) ma ogni occasione per noi è valida per presentare un nuovo approccio progettuale e sensibilizzare la controparte sui benefici derivanti dall’unione di tutte le competenze dello studio.
Ciò alle volte ha comportato l’offerta di più servizi di quelli richiesti, causando maggior costo economico per SUMs, ma siamo convinti che la strada sia quella giusta nonostante lo scenario intorno a noi non sembri ancora del tutto favorevole all’approccio multi-dimensionale e valoriale che ci caratterizza.
Eticità, abbattimento delle barriere architettoniche e collettività sono alcuni degli aspetti umani imprescindibili che accompagnano i vostri algoritmi. Qual è il vostro approccio al fattore umano?
Il fattore umano è declinato da SUMs in due modi. Da un lato c’è il concetto di “partecipazione” degli interessati (i cosiddetti stakeholders) che per noi sono i fruitori finali dello spazio/edificio progettato e – laddove il contesto lo consenta – anche gli interlocutori privilegiati con cui co-progettare le soluzioni.
Dall’altro c’è il concetto di “corpo” e del rispetto di ogni sua diversità.
Il nostro è un approccio profondamente legato ai Diritti umani nel quale è fondamentale la capacità di ciascuno di autodeterminarsi, di trovare il proprio posto nel mondo in una relazione positiva e costruttiva con gli altri e con l’ambiente circostante.
In particolare – per quanto riguarda le persone con disabilità – facciamo riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dallo Stato italiano nel 2009 e dall’Unione Europea nel 2011 (dove troviamo finalmente ufficializzato il concetto di Universal Design).
Non possiamo continuare a immaginare che le persone si muovano e interagiscano con gli arredi e lo spazio tutte allo stesso modo.
Dobbiamo elogiare le diversità per superare lo standard.
Per dare a tutti l’opportunità di partecipare alla vita sociale, lo spazio e l’arredo devono essere progettati affinché facilitino (e non ostacolino) le attività di ciascuno. Prendere in esame i modi con cui una persona può muoversi e percepire lo spazio comporterebbe una casistica infinita di difficile gestione.
Tuttavia, possiamo utilizzare delle matrici, combinando attività, classi di disabilità, strutture corporee, dati statistici, dati antropometrici e informazioni reali raccolte in anni di esperienza a diretto contatto con una molteplicità di individui.
Sono questi i dati di partenza che ad esempio abbiamo utilizzato nel progetto di ristrutturazione della COOP di Bagno di Gavorrano (GR). In questa maniera il bancone della frutta è stato inclinato e modellato sulla base degli inviluppi reali delle persone assicurando così a tutti (bambini, persone su sedia a rotelle, anziani) di afferrare la frutta autonomamente.
Anche su questo versante utilizziamo gli strumenti parametrici, ad esempio per verificare la rispondenza di un dato componente architettonico (una rampa, un corridoio, una porta, ecc) ai requisiti normativi, oppure per ottimizzare l’impostazione planimetrica attraverso algoritmi che verifichino alcuni aspetti funzionali (analisi dei flussi, numero e posizione dei parcheggi, ottimizzazione dei collegamenti tra gli ambienti, ecc.).
Quanto distacco percepite tra la dimensione accademica e quella lavorativa in Italia e cosa consigliereste ai giovani architetti che stanno per intraprendere il loro percorso lavorativo?
Nel logo di SUMs compare il simbolo di sommatoria perché siamo un gruppo multidisciplinare di competenze che si sommano in maniera orizzontale. Il risultato di questa sommatoria può crescere in funzione del numero di discipline che vengono coinvolte di volta in volta nel processo con una visione comune.
Il nostro lavoro sta cambiando e per questo servono architetti e ingegneri con capacità di ascolto e dialogo con il prossimo, competenze informatiche e matematiche, di fisica tecnica, di gestione manageriale, di modellazione tridimensionale, di disegno e grafica, disposti a mettersi in discussione e ad autodeterminarsi. Parte di queste capacità si imparano nelle università e nella società ma purtroppo non tutte. Altre vanno acquisite sul campo.
Noi abbiamo attivato delle convenzioni con l’Università di Bologna per i tirocini formativi ma siamo disponibili a costruire una vera e propria partnership pubblico-privata su progetti di ricerca-azione che siano occasione di crescita per tutto il team di lavoro composto da professionisti, ricercatori e studenti e siano il mezzo per portare avanti progetti di rigenerazione con ricadute positive e reali sul territorio.
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