“A tu per tu” è una nuova rubrica dedicata all’incontro con giovani realtà emergenti del teatro under30 sul territorio nazionale. Il primo incontro con Anonima Sette è andato più o meno così.
Ci troviamo in un bar dall’atmosfera orientale a San Lorenzo, quartiere giovane così com’è giovane la compagnia under30 Anonima Sette, composta da Giacomo Sette, Simone Caporossi, Azzurra Lochi e Giulio Clerici. Reduci da un anno di brillanti successi – ultimo ma non per importanza il premio della critica al festival Direction Under30 di Gualtieri – ciò che emerge subito dal loro modo di parlare e di parlarsi è un’intesa profonda, di solito riservata ai membri di una famiglia, agli affetti più cari.
Questo, è quello che ci hanno raccontato.
Come nasce Anonima Sette?
G.S: Io e Azzurra stavamo facendo una residenza con la compagnia Habitas, che oltretutto sarà presto in scena con “L’Imbroglietto” al Teatro San Genesio. Io come drammaturgo, Azzurra come performer, ci siamo conosciuti, ci siamo piaciuti a livello intellettuale e quando poi siamo tornati a Roma abbiamo deciso di intrecciare un discorso teatrale. All’epoca io stavo lavorando ad un testo, “Il Peccato”, che andrà in scena quest’anno per la produzione del Teatro Studio Uno, e avevo chiesto a lei un parere, un aiuto. Così piano piano abbiamo deciso di fondare questa compagnia, cominciando un discorso più strutturato e con il tempo sono entrati a farne parte anche Simone e Giulio.
A.L: Il nome poi è nato in macchina, quando tornando dalle prove siamo rimasti imbottigliati nel traffico. Giacomo mi ha detto: “Non ti preoccupare, non ti sto sequestrando”. Io gli ho risposto che se c’è qualcuno che fa i sequestri sono io, riferendomi all’Anonima Sarda dato che anch’io vengo dalla Sardegna. A quel punto lui mi ha risposto con la battuta “Anonima Sette”: appena si è aggiunto Simone proposto di mantenere ironicamente questo nome “per rapire le persone e costringerle a stare a teatro”.
Le compagnie a Roma ormai vengono definite un po’ come un matrimonio, una specie di “patto di sangue”: cosa significa per voi, come artisti under30, far parte in maniera costante di una compagnia?
G.S: Anonima Sette è nata con una domanda: c’era davvero bisogno di un’altra compagnia a Roma? E la risposta è stata no. Siamo nati più che altro come un movimento: tutte le persone che fanno parte del nostro movimento condividono un’idea, non tanto un’idea artistica del teatro, quanto di “fare” il teatro. Siamo tutte personalità differenti, ma ciò che ci tiene uniti nonostante gli scontri sta nel fare di questa diversità una ricchezza: tutti sentiamo una forte spinta verso qualcosa, che si incontra nella volontà di Anonima Sette nel portare avanti un teatro che sia di ricerca ma che possa esser fruito da tutti. Certo litighiamo, spesso, ma entrare nelle dinamiche del conflitto, superare gli scogli, dirci le cose in faccia è una delle cose che ci fa andare avanti.
A.L: In realtà non esiste niente senza uno scontro, e sto facendo pace con quest’idea di realtà da pochissimi anni. Ma se calpesti un terreno che è sempre uguale, è difficile che in qualche modo tu possa andare verso qualcosa di nuovo. E quando si mette il cuore in ciò che si fa è inevitabile che si arrivi a momenti di attrito, ma sono proprio quelli i momenti in cui si semina qualcosa. Anonima Sette è un bambino, sta iniziando a gattonare: stiamo camminando insieme e con il tempo capiremo come formare la nostra figura.
S.C: Per me l’Anonima è di fatto una seconda casa: siamo in qualche modo una famiglia che si basa su un’idea, che principalmente va a sfociare nel teatro, ma non sempre è così. Ci capita di riunirci e parlare di tutt’altro, per poi tirare fuori dagli argomenti più disparati il materiale che ci occorre per le prove o per creare degli spettacoli. Non saprei come altro spiegarlo: con loro mi sento a casa.
G.C: Il nostro obiettivo, come diceva Giacomo, è proprio quello di portare in scena un teatro fruibile. “Arkady” – uno spettacolo che riporteremo a Gennaio al Teatro Trastevere, per la direzione artistica di Marco Zordan, e che ha debuttato l’anno scorso a Carrozzerie n.o.t. – è un po’ la sintesi di quest’idea, perché è riuscito ad arrivare sia a chi non va mai a teatro sia ad esperti del settore. Il teatro non deve esser fine a se stesso e vogliamo evitare proprio questa tendenza che si sta diffondendo tra molte giovani compagnie.
Quali sono stati i momenti di svolta di Anonima Sette e quali scelte e sacrifici avete dovuto fare per arrivarvi?
G.S: Ci sono sicuramente punti di svolta professionali, come “B/RIDE”, nato inizialmente come monologo da una collaborazione con Martina Giusti e al quale in un secondo momento abbiamo partecipato tutti, costruendone uno spettacolo lungo da portare in stagione. Ma le vere svolte avvengono quando ci dobbiamo confrontare tra di noi e con il mondo che ci circonda: spesso le compagnie under30 hanno una loro anima, una loro identità forte, che però non coincide con la tendenza vigente. E quindi capita di dover fare dei passi indietro, trovare dei compromessi e imparare a parlare in un certo modo, anche tra di noi. Dalle litigate più agguerrite sono nate anche le cose più belle. Una volta Giulio, parlando della tendenza delle compagnie under30 ad esser formate da coppie, disse: “Nel nostro caso, da un grande odio è nata una grande compagnia”.
Come vi collocate rispetto al panorama teatrale under30?
S.C: Ci piace molto collaborare con altre realtà, mettendo a disposizione il nostro sapere logistico. Ad esempio l’anno scorso ci è capitato di ospitare un artista calabrese di burattini, invitandolo in un teatro che conoscevamo e che aveva appena aperto.
G.S: Abbiamo i nostri giri, i nostri “fratelli”, che sono per esempio Habitas, bologinicosta, e molto spesso qualcuno di loro ha collaborato con noi, così come alcuni di noi hanno collaborato con loro. Adoriamo mischiarci, conoscere: quel che manca alla nostra generazione, alla quale invece noi teniamo molto, è la capacità di fare rete. E quando andiamo a vedere i lavori delle compagnie a noi vicine sentiamo di appartenere a quel mondo, ci sentiamo parte di qualcosa di più grande.
A.L: Non ha senso esser competitivi, darsi le gomitate: bisogna invece sostenersi a vicenda, credendo non solo in noi stessi ma anche negli under30 come comunità. E l’unico modo che abbiamo per farlo sta nel viversi, nel vedersi e nell’entrare in contatto.
G.C: Proprio perché abbiamo stili diversi non ha senso pestarci i piedi. Non c’è nemmeno la concorrenza, perché se io vendo le cipolle e tu le pentole non ha senso farsi la guerra, anzi, magari vendendole insieme riusciamo a fare un buon soffritto.
Si parla tanto di realtà teatrale under30, ma quali sono i vostri sogni e le vostre speranze, sia come compagnia che come singoli artisti, per il futuro “over30”?
A.L: Il discorso circa la realtà under30 si sta affrontando parecchio in Italia negli ultimi anni, come a voler catalogare il teatro in diverse fasi. Noi adesso facciamo parte di questa fase, siamo quasi dei “privilegiati”, perché facciamo parte del ventaglio degli under30, e allora prendiamoci questo tempo per sperimentare, con la speranza di arrivare ai trenta con una maturità artistica e umana maggiore. Speriamo anche di arrivarci con una maggiore maturità economica, che ci permetta di realizzare idee e progetti che al momento sono chiusi nella nostra testa e nel nostro cuore, senza il bisogno di ridimensionarli.
G.C: Spero e credo anche io in un futuro in cui sarà possibile vivere di questo lavoro e al contempo dare sfogo alla propria creatività interiore, senza perdere la freschezza che ci contraddistingue.
S.C: Io mi vedo sempre a fare questo: quello per cui i miei genitori si sono sacrificati e quello che ho sempre sognato e per il quale voglio continuare a lottare. Per me essere attore è una missione, non è solo un lavoro.
G.S: A livello di compagnia vorrei che sugli over30 fossimo una realtà ormai ben consolidata e che possa permettersi quel che voglio fare da quando ho cominciato questo mestiere, e cioè trasmettere. Vorrei che ad un certo punto Anonima Sette diventasse una scuola grazie alla quale le persone che entrano in contatto con noi possono formarsi e portare avanti un loro discorso, con una solida base. Tutto ovviamente a modo nostro, nei termini per i quali non sei uno schiavo, ma una persona che conta qualcosa. A livello personale, io devo scrivere e devo dirigere, non posso fare altro: è la mia vita, il mio respiro, il motivo per cui vado avanti e quando morirò a centottantasette anni, ucciso da un marito geloso (che sarà Simone) starò scrivendo l’ennesimo testo.